BACALAUREAT – UN PADRE UNA FIGLIA (2016), di Cristian Mungiu
Era attesissimo il nuovo lavoro di Cristian Mungiu, che in Croisette ha spesso tenuto banco, dopo la Palma d’Oro conquistata nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, che lo ha rivelato al pubblico come uno degli sguardi d’autore più potenti del contesto europeo contemporaneo, e dopo l’en plein per Dupa dealuri, che conosciamo col titolo di Oltre le colline, e che gli valse il premio alla sceneggiatura e il premio duplice per le protagoniste femminili.
Due film che Mungiu ha architettato come una trivella, anzi no, come uno strumento precisissimo atto allo scandaglio delle reazioni dell’essere umano a temi più grandi di lui: l’aborto, l’ortodossia religiosa. E questo di volta in volta affinando uno stile che già si era mostrato folgorante, quando nel già citato 4 mesi Mungiu filmava i dialoghi derogando al controcampo, e servendosi di un forgiatore di atmosfere luministiche in chiaroscuro come Oleg Mutu, direttore della fotografia, non a caso, anche de La morte del signor Lazarescu, di quel Cristi Puiu che, seppur avendo dimostrato altrettanto talento e altrettanta profondità di indagine e confermato le sue ottime peculiarità, non è forse riuscito ad assestarsi su quei medesimi livelli con il suo Sieranevada, anch’esso concorrente cannense.
Mungiu invece, cambiando ambientazione, contesto, umanità, aggiunge un altro, autorevolissimo tassello al suo enorme affresco. Questa volta, a essere messa sotto processo è la fibra morale di Romeo, medico a Cluj, che ha cresciuto sua figlia con la cultura dell’impegno per assicurarsi un futuro universitario di prestigio, e l’obiettivo sembra alla portata: Eliza è stata ammessa in una rinomata università inglese, le manca solo la formalità dell’esame di diploma al liceo. Ma Eliza subisce un’aggressione che ne compromette l’equilibrio psicologico, e finisce col mettere in dubbio la solida impalcatura organizzata dal padre nel corso di una vita intera.
Romeo, quindi, ricorrerà a delle trafile opache, non alla luce del sole, per far sì che tutto l’apparato prosegua il suo corso; ora, lo snocciolamento semplicistico del plot di Bacalaureat – titolo internazionale Graduation – potrebbe far incorrere nel dubbio del semplicismo: ma Mungiu, nonostante sia stato in qualche sede tacciato di moralismo, secondo noi ha invece un lucidissimo sguardo sulla faccenda, e non lascia al caso nessuna sfumatura nel disegno dei personaggi: fin dall’inizio, per esempio, sappiamo che Romeo, nonostante mosso da nobili principi, riguardanti la figlia, non è altrettanto puro nel rapporto con la moglie, che infatti tradisce con una giovane insegnante d’inglese.
La vita di Romeo, quindi, dacché indirizzata tutta verso il soddisfacimento di un suo progetto (progetto che, si badi, riguarda la figlia, e non se stesso), a un tratto sembra disfarsi come un castello di sabbia, granello dopo granello, strato dopo strato.
Tutto ciò raccontato con un ricorso insistito al piano sequenza (tratto stilistico in comune con il film di Puiu, che però proprio nello stesso elemento linguistico sembra perdersi, finendo con lo sfilacciare parzialmente il film), e servito da una compagnia di attori sopraffina, su cui, come si può immaginare, spicca Adrian Titieni, gigante teatrale in patria e non solo che viene messo alla prova in ogni registro, ed è sempre autentico, sempre convinto e convincente, sempre vero. Il cinema romeno è vivo, più che mai, e questa Cannes ne è stata l’ennesima dimostrazione.
Elio Di Pace