Edgar Wright è probabilmente il più importante autore di cinema industriale-commerciale d’intrattenimento vivente. Certo, c’è Tarantino, che piace a (quasi) tutti per partito preso e per affezione, nonostante molti dei suoi seguaci sembrino quasi dimenticarsi della profondità e della complessità di linguaggio di cui è capace – infatti non sono stati in pochi a lamentarsi di quello che è probabilmente il suo film più grottesco, violento e completo, The Hateful Eight. E se proprio dobbiamo prendere come paragone il buon Quentin, autoprofessatosi godardiano di ferro, Wright comunque non scompare: i riferimenti rimangono quelli, alti e bassi in contemporanea, e la ferrea capacità nel costruire mondi e storie pure resta invariata. E dire che il regista britannico, classe ’74, dal 2000 ad ora, escluso quest’ultimo sforzo, ha portato al mondo giusto 4 film: i tre film comici che costituiscono la meravigliosa “trilogia del Cornetto”, tutti e tre co-sceneggiati dal regista con Simon Pegg, sempre attore protagonista insieme a Nick Frost, e Scott Pilgrim Vs. The World. A rendere Wright così importante è una serie di fattori, e il primo che ci viene in mente è il rapporto, solitamente umoristico, tra scrittura e montaggio. Il piano sequenza ripetuto e il susseguirsi di pianificazioni alternative in Shaun of the dead, la sparatoria in piazza verso il finale di Hot Fuzz, tutti i raccordi fumettistici e videoludici di Scott Pilgrim e il crescendo conclusivo di La fine del mondo sono tutte sequenze che dimostrano, in maniera goliardica ma sempre geniale nel senso mozartiano del termine, un talento innato nell’unire armonicamente il flusso narrativo, l’efficacia comica del dialogo e la drastica immediatezza delle immagini in modo da lasciare ogni momento impresso nella memoria, in maniera volatile e intensa, con il giusto spazio a un tipo di comicità “inglese” che non lascia mai il tempo che trova ma che riesce sempre ad avere il suo impatto, senza moralismi di sorta. L’esempio principale che ci viene in mente è in Hot Fuzz, parodistico cop-movie che usa il luogo comune tutto americano della cittadina innocua che nasconde in sé un male incontenibile e insospettabile per rivelare in maniera sagace e cruenta la stoltezza dell’establishment del Regno Unito. L’eroe Nick Angel, il cui nome è ispirato dal supervisore delle musiche di Shaun of the Dead, è un “eroe” fumettistico duro e puro, che passa costantemente dal raziocinio al delirio a causa del proprio fermo credo nella giustizia. L’unica cosa che può davvero corromperlo è la visione di un barlume di speranza in un mondo fittizio in cui la giustizia esiste ma è affidata all’eccesso e a un ben più persistente delirio: i film d’azione americani, rappresentati principalmente da Chuck Norris, dai due Bad Boys di Michael Bay e da Point Break di Kathryn Bigelow. La visione di questi film lo porta nella direzione di un’irrealistica esplosione di violenza verso il prossimo in cui molto sangue è versato ma nessuno paradossalmente perde la vita; la sua vita diventa una soap opera in cui si susseguono assurdi colpi di scena, e la tamarraggine del cinema americano da via di fuga diventa l’unica realtà possibile. Basterebbe il veloce primo piano con zoom del cigno durante l’inseguimento tra Pegg e Frost da una parte e Jim Broadbent e Timothy Dalton dall’altra nel finale del film per sancire l’incredibile verve che ha l’azione nel cinema di Wright, in un’idea di azione che è nel contempo perfettamente comprensibile con la giusta attenzione e platealmente sconclusionata fino a risvolti grotteschi. In quest’ottica, comunque, Baby Driver diventa un punto d’arrivo ancora più considerevolmente importante, poiché il film rientra parzialmente nei canoni proprio di quel cinema che Nick Angel e il suo partner Danny Butterman osservano per imparare a deformare la realtà e diventare “veri poliziotti” – o meglio versioni surreali della lotta per la giustizia. E ciò a partire dalla produzione totalmente americana.
Il protagonista di Baby Driver in teoria è Miles, “miglia”, detto Baby, “bimbo”, interpretato dal bamboccio Ansel Elgort, noto alle adolescenti e alle pre-adolescenti di tutto il mondo come il protagonista maschile dell’aberrante e retorico Colpa delle stelle (2014), filmaccio teen sentimentale, ricattatorio e involontariamente comico con al suo centro la storia d’amore tra un ragazzo e una ragazza malati di cancro. È un “driver”, un autista di rapine, il più giovane e il migliore sul campo, assoldato da un boss interpretato da Kevin Spacey per una serie di lavori, con squadre diverse, che deve portare a termine come penitenza per avergli rubato una macchina anni e anni prima. Possiamo ricordare una lunga storia di film con al centro macchine e inseguimenti, tra la saga di Mad Max di Miller, Il braccio violento della legge di Friedkin (che su Twitter ha espresso il proprio apprezzamento per Baby Driver), Bullitt di Yates e volendo pure Taxi Driver di Scorsese, ma probabilmente i due più diretti riferimenti pregressi da considerare nel trattare il film di Wright sono The Driver di Walter Hill e Drive di Refn – e se vogliamo essere parodistici anche noi, possiamo considerare come innocuo spin-off del filone anche la saga di Fast & Furious, e in particolare gli ultimi 3-4 film, con i suoi videoclip post-mortem, il suo liberatorio pseudo-anarco-fascismo e il suo assiomatico senso dell’epica strabordante, sentimentale e praticamente privo di significato. Seguendo una logica hegeliana, The Driver può essere una tesi, Drive un’antitesi e Baby Driver una sintesi: il film di Hill pone le basi per un’epica industriale dell’automobile, con personaggi che non sono reali ma simboli atti a rimanere, solidi, statuari; il film di Refn applica questa logica solo al protagonista interpretato da Ryan Gosling, chiamato anch’egli Driver, un «real hero, real human being» le cui capacità eroiche e buone sono messe in risalto da un annullamento quasi totale della personalità, che lo rendono tanto patetico e autistico da una parte quanto affascinante e puro dall’altra (e il film rimane probabilmente il migliore e il più completo del complesso regista danese, anche forse perché è l’unico che non ha scritto di proprio pugno); Baby Driver identifica tutti i propri personaggi con soprannomi e nomignoli idealistici, al punto che gli unici nomi propri veri sono nomi ispirati a canzoni celebri (v. Deborah dei T.Rex), estremizzando le conseguenze di un’osmosi tra il classicismo di Hill e il postmodernismo di Refn nella direzione di una baraonda di coreografie dagli effetti anche parzialmente comici, denigratori e iconoclasti. Se il Driver interpretato da Gosling è difatti chiuso in una sottospecie di mutismo disumano che mette in risalto l’incoerenza malsana del suo essere, in una lotta di rivalsa sociale ed esistenziale, il Baby interpretato da Elgort sprizza umanità da tutti i pori, non perché comunica (anche perché sostanzialmente parla poco) bensì perché è un personaggio effettivo e definitivo, con dei vissuti, con un’identità. Non è un eroe assoluto e fordiano, ma ha una struttura e una psicologia, ha una canonizzazione che conferisce maggiore significato al suo essere.
Ma il protagonista effettivo di Baby Driver non ha un corpo, né un volto, né una carne, né una pelle: è la musica. Wright ha sempre impreziosito i propri film con grandi colonne sonore (Queen, Goblin e Smiths in Shaun of the dead; Dire Straits, Kinks, The Fratellis e The Crazy World of Arthur Brown in Hot Fuzz; Broken Social Scene, Rolling Stones, Beck e la band fittizia Sex Bob-ombs in Scott Pilgrim; Primal Scream, Blur, Suede, Stone Roses, Doors e soprattutto Sisters of Mercy in La fine del mondo) ma mai come in questo film ha messo in maniera definitiva la musica in primissimo piano, tramutando in fin dei conti questa specie di western urbano dalle tinte ilari in un vero e proprio musical in cui tutto si muove a ritmo. Nell’epoca corrente, del resto, l’atteggiamento videoclipparo ha ormai conquistato la settima arte. La musica sembra sempre necessaria, non è più un riempitivo o un sottofondo, è proprio una parte portante dell’organismo filmico. Wright a modo suo commenta questa disfatta dell’arte cinematografica rendendola propria, ponendo il proprio protagonista pienamente nella generazione dell’estetica videoclippara, ma motivando ciò con una malattia (Baby usa la musica per soffocare un suono costante e assordante che lo ossessiona da quando i genitori sono morti in un incidente automobilistico quando lui era bambino) e portandolo a comunicare con il proprio tutore afroamericano e sordo unicamente per gesti. La sordità è un blocco dialogico per lui, ma è letteralmente il principale modus operandi che Baby ha nel rapportarsi con l’altro, portandolo a imbarazzanti ambiguità anche nel fare le prime mosse nel tentativo di conquistare Deborah, cameriera che con un solo sguardo cattura la sua attenzione in maniera irreversibile. La sordità da una parte dello spettro, la musica dall’altro. Senza musica, Baby non guida, non vive. Rigorosamente in cuffia, come ogni millennial che si rispetti, con una serie di iPod, ognuno per un umore diverso. Il film si apre, dopo un’avventurina iniziale che mette in risalto la chiusura mentale del protagonista attraverso un’entusiasmante ballo tra automobili in autostrada durante una fuga da una rapina, con un piano sequenza illuminante: scorrono i titoli di testa, Baby esce dal rifugio del suo boss con gli occhiali da sole e gli auricolari, va a comprare quattro caffè ad asporto, e torna indietro. Tutto ciò ascoltando (e canticchiando tra sé e sé) Harlem Shuffle di Bob & Earl, muovendosi perfettamente a ritmo di musica mentre le scritte sul muro replicano il testo della canzone: il mondo stesso, la realtà cinematografica in cui Baby vive, è un video musicale, è un’accettazione di una condizione irreale a cui non può che adeguarsi. È come un musical sui generis, fatto di pezzi altrui. E in questo mondo di giovani melodie, la musica è versatile: si passa da Ennio Morricone alle colonne sonore Pixar, dal reggae egiziano ai Queen, da Hans Zimmer ai Beach Boys, dal quartetto di Dave Brubeck a Sky Ferreira (cantante indie pop che interpreta anche la mamma di Baby, e che fece un cameo nella nona puntata di Twin Peaks: The Return) che coverizza Lionel Richie, da Beck a David Axelrod, da Tequila che scandisce una sparatoria al gangsta hc-rap dei Run The Jewels (dei quali un membro, Killer Mike, appare in un cameo accanto a Big Boi degli OutKast), dai Boards of Canada ai Focus, da Gwen Stefani a Kid Koala, e poi i R.E.M., i Blur, Barry White, e Simon & Garfunkel, la cui canzone Baby Driver del 1970 è stata la principale ispirazione per il soggetto e ovviamente il titolo del film, e mille altri ancora, di generi diversissimi.
Baby Driver è forse la cosa più vicina a una lezione di montaggio nel cinema contemporaneo d’intrattenimento, a suo modo anche più di Hot Fuzz e Scott Pilgrim che erano più virtuosistici, deliranti e personali. La sua struttura imprevedibile che alterna gag e freddure imperdibili a sezioni veramente glaciali nel trattare l’azione e la moralità spiega perfettamente il ritmo di questo tipo di cinema, in una maniera che in un modo o nell’altro può anche evolvere esso stesso. Con due antagonisti come Jon Hamm (il Don Draper di Mad Men) e Jamie Foxx, il primo sudaticcio e passionale e il secondo sbarellato e incosciente, Baby Driver può passare dalla commedia al thriller nel giro di uno stacco, di un raccordo, di uno sguardo à la spaghetti western leoniano filtrato attraverso le luci al neon di un parcheggio. Nella sua esibita semplicità, Baby alla fine risulta come un vero eroe o un vero essere umano, difettoso, rincoglionito, ma pregno di quella tendenza al bene che caratterizzava i personaggi di John Wayne nei film di Ford. Il citazionismo esplicito del film tende a non irritare perché Wright capisce perfettamente la materia con cui sta trattando, non diventa manierista o imitatore ma ristrutturatore o riscrittore dogmatico: l’azione è il campo di battaglia per un nuovo sentiero ironico e avvincente. È un film definitivo perché marca un momento di conquista della grandiosità del tecnicismo sulla banalità piatta dell’ambiente commerciale contemporaneo. È grande cinema d’intrattenimento, con piccole e grandi rinascite interne, con piccoli e grandi momenti di tensione, di risate, di pianti. Il sogno in bianco e nero di una realtà datata anni ’50 in cui l’eroe può davvero riunirsi con la propria amata, e tornare a casa con la Debbie di Sentieri Selvaggi, può solo avverarsi dopo un finale affrettato e stereotipato, come quello di Hot Fuzz. La finzione ci ha formato, e dunque noi, uomini o personaggi, dobbiamo arrivare a formare noi stessi la finzione. È una cosa dolce, che trasforma il pessimismo in speranza, perché Wright è un cantastorie di favole ‘pulp’. Conta poco il sangue, quando si può ballare così armoniosamente sulla bara del cinema, per farlo vivere magari di nuovo, come avrebbe voluto il compianto Romero che tanto amava Shaun of the Dead. Lo sguardo del cinema d’azione è diventato questo, bisogna accettarlo e muoversi con Baby, crescere con Baby, rinascere con Baby, attraverso le migliaia di canzoni che portano il suo nome e i suoi derivati, per miglia e miglia verso un nuovo tramonto, verso una nuova rivoluzione, verso una nuova azione.
Nicola Settis