Babilonia Mon Amour, opera prima di Pierpaolo Verdicchi, tenta di dar voce all’altra parte dello stereotipo: il logoro, sporco e irriverente migrante, astioso alle regole, riottoso alla burocrazia, pretendente diritti al di sopra di quelli che i paesi ospitanti sono già generosamente disposti a dare; la “bella vita” dei migranti in Africa, che non è vero che scappano dalle guerre, che nell’etica dell’ignoranza stanno meglio di noi, quelli che vengono qui solo per guadagnare di più e fare i ricconi quando tornano nel loro continente. Nelle ore in cui scrivo, la Spagna rappresentata in questo film sembra una realtà anni luce distante rispetto ai tristi fatti di sangue recenti, ma al contempo snuda un nuovo gruppo di vittime, indirette, ma pur sempre tali, di questa sanguinosa tragedia. La burocrazia farraginosa della vecchia Europa già da sola si erge come cieco gigante normativo, mulino a vento di migliaia di migranti partiti con poco o niente in tasca (il che non vuol dire che siano dei pezzenti, semmai troppo fedeli a una umanità equa, solidale e positivista come forse è esistita solo nella propaganda colonialista), tra racconti di ordinaria disobbedienza e il tentativo di trovare due soldi, le giornate perse in fila per documenti e i momenti di umanità e di condivisione, riservati di solito ad appartenenti alla stessa comunità. Perché sì, in tutto il mondo ci si riunisce tra membri della stessa comunità per sentirsi meno soli, per sentirsi almeno un pochino a casa, anche all’estero.
L’intensità emotiva di alcuni momenti ci porta a comprendere gesti di cui sentiamo eco tutti i giorni dai notiziari e dalla rete, ma di cui non comprendiamo realmente le motivazioni, separati da quel muro di alterità che ci impedisce di immedesimarci veramente. Questo film ha il merito di traslarci dall’altro lato della Fortezza Europa, anzi da uno dei mille altri lati. I senegalesi qui non sono solo uno delle mille etnie di migranti, chiedono anzi di avere lo stesso trattamento riservato agli arabi, sintomo di distinguo che, anche se col nostro occhio possono sembrare lana caprina, sono tuttavia reputati pesanti quando ci avviciniamo, grazie alla macchina da presa, a chi questi distinguo li sente sulla pelle. Con questo tipo di prodotti, il sottoscritto fa sempre fatica a scindere il messaggio dal contenuto, ovvero riuscire a definire se quello che “viene detto” ha in me un impatto preponderante rispetto a “come viene detto” – vale a dire la qualità intrinseca del film come opera cinematografica di per sé. Per questo mi è sempre facile un poco di odio verso i film di messaggio, perché sono un ottimo modo per nascondersi dietro al dito della propria incompetenza. In questo caso tuttavia mi è difficile sentirmi infastidito dalla cosa, anzi: la cosa più interessante e attraente del film è probabilmente la resa a cavallo tra documentario e messa in scena, che di primo acchito ricorda gli esordi dell’austriaco Haneke (v. Benny’s video, 1992) a causa dell’uso degli spazi e della staticità della regia, ma probabilmente più che altro strizza esteticamente un poco l’occhio alla serialità televisiva degli ultimi tempi (quindi quella dei tempi morti), da The Wire in poi. Comunque la pausa emotiva e la non-azione ripresa a sottolineare la densità emotiva sono tutti elementi non nuovi, ma che non stonano affatto nel panorama cinematografico nostrano e, anzi, forse lo arricchiscono.
Giordano Marconi