BABA YAGA (1973), di Corrado Farina
“Ho strappato alle oscure presenze l’orribile parola vivificatrice!
Ora infondo vita al Golem“Carl Boese, Paul Wegener, cartello del film muto The Golem: how he came to the world, 1920
Il caschetto nero di Louise Brooks, lo sguardo nel pozzetto della Hasselblad, la volontà di provocare, vivere la sessualità, inoltrarsi nel mistero e nel soprannaturale – la strega, l’erotismo, l’onirico, l’orrore, il fumetto. Valentina Rosselli, nota semplicemente come Valentina, nasce dalla matita e dalla china di Guido Crepax come fidanzata di Philip Rembrant/Neutron nel 1965, per surclassare ben presto il personaggio di cui sarebbe dovuta stare all’ombra diventando una delle più note eroine del fumetto italiano. Fotografa che non ha paura a sfidare la morale dei suoi tempi con nudità e contesti feticisti, Valentina è uno dei rarissimi personaggi di carta con una data di nascita – 25 dicembre 1942 – e con la caratteristica di invecchiare nel corso degli anni e degli albi. È il confine sempre labile fra sogno e realtà il punto su cui si imperniano i fumetti di Crepax, sempre sospesi fra problema tangibile e inafferrabile, basati sui contrasti, sulle citazioni, sui cambi d’atmosfera, sui meticciamenti, leggenda e incubo, allucinazione e onirismo, sensualità e risolutezza. Gli albi di Crepax con protagonista Valentina si sono susseguiti per quasi 40 anni, facendo convivere immaginari spesso agli antipodi e cristallizzandoli in una donna risoluta, indipendente, sfacciata, ma che non rinuncia per questo a essere umanamente problematica, fragile, sensuale, a volte nevrotica, sempre sognatrice. Una donna che non può che scatenare altri immaginari, altre arti, altri contrasti e nuovi meticciamenti: ed è qui che entra in scena il cinema visionario e drammaticamente sottovalutato di Corrado Farina, che nel 1973 dà fisicità a Valentina con il corpo languido di Isabel de Funès traendo Baba Yaga, il suo secondo (e ultimo) lungometraggio ancora oggi fra i più affascinanti e misteriosi oggetti del fantastico italiano, dall’albo Baba Yaga – Il fascino delle streghe.
Già nella trama delineata da Crepax nel fumetto del ’71, la strega malvagia Baba Yaga (o Baba Jaga, a seconda delle versioni) veniva estrapolata dal folklore russo e polacco per essere ricontestualizzata in abiti moderni, e nella versione cinematografica di Farina di due anni successiva il regista torinese spinge ancor più il piede sull’acceleratore della modernità, ponendo l’incontro fra Valentina e la strega – “Ma non si tratta di un incontro casuale, è preordinato” – in quella roboante Milano da bere a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, dove la borghesia “di sinistra” vorrebbe definirsi progressista tenendo Il Capitale di Marx vicino al tavolino del salotto e ribaltando la morale con il proprio lavoro, ma in realtà non riesce a scrollarsi né dalle abitudini borghesi, né tanto meno dalle logiche economiche, dalle convenienze, dalle onde da cavalcare saltando sul carro giusto. “Sono una puttana, ma almeno ammetto di esserlo. Molto meglio delle troppe puttane che si fingono suore” dirà di se stesso Arno Treves (George Eastman) – nel cui rapporto di coppia con Valentina si inserirà “la vecchia lesbica” Baba Yaga (Carrol Baker) –, regista cinematografico un giorno impegnato a inquadrare un topo per la difesa dell’ambiente e il giorno dopo sul set di un lisergico spot di detersivi – il capitalismo all’apice del politically incorrect – che “eliminano il nero” al punto di polverizzare un ladro di colore durante la sua fuga per i tetti.
Del resto, come detto in apertura nel salotto meneghino in cui viene presentata Valentina, la fotografia, il cinema e il fumetto sono in sostanza la stessa cosa, libera espressione, arte, orgoglio e ostentazione di se stessi, destinati a confluire nel film di Farina in un manifesto ultra-pop che, dopo aver rivisitato in chiave moderna il mito dei vampiri nell’esordio Hanno cambiato faccia, Pardo d’Oro a Locarno 1971, compie in Baba Yaga lo stesso sostanziale tipo di lavoro con il Golem, potente figura antropomorfa che le tradizioni ebraica e medievale vogliono d’argilla, qui reso in una bambola di pezza capace, controllata dalla strega, di prendere vita per distruggere e mietere vittime. E nelle intenzioni del regista, del resto, ci sarebbe stato un analogo lavoro con Il Fantasma dell’Opera di Leroux riletto con Un posto al buio, ma il terzo film di Farina, complice anche l’iniziale insuccesso del Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore per Franco Cristaldi che avrebbe dovuto produrlo, non vide mai la luce, decretando la sostanziale fine della carriera di un cineasta sottovalutato e ingiustamente dimenticato, che il Trieste Science+Fiction 2016 ha deciso di omaggiare a pochi mesi dalla scomparsa. Farina, prima ancora che regista e fumettista, era un fine intellettuale, uomo di cultura dall’immaginario smisurato, talento visionario costantemente proteso alla ricerca dell’originalità nel rimasticare il classico, dedito alla commistione di arti e di generi il più possibile diversi fra montaggi serrati e linguaggi che si sovrappongono.
Non a caso la chiave del film, il momento in cui Valentina capirà di dover sviluppare la pellicola presente nella sua Hasselbad per vedere come l’inquietante bambola in tenuta sadomaso donatale dalla misteriosa Baba Yaga possa realmente trasformarsi in seducente donna solo per colpire e uccidere, avverrà in un cineclub che presenta, nell’ambito di una retrospettiva sull’espressionismo tedesco, The Golem: How He came Into the World, codiretto nel 1920 da Carl Boese e Paul Wegener come prequel di quel Golem del 1915, ormai andato perduto, che fu la primissima apparizione di un golem al cinema. Baba Yaga è, ancor più del fumetto da cui è tratto, un mondo di citazioni, rielaborazioni, commistioni, contrasti. Il punto è sempre la lotta fra realtà e sogno, fra passato e presente, fra estetica e commercio, fra piacere e dominio, fra volontà e schiavitù. C’è la Milano anni Settanta che incontra il fascino misterico delle streghe – “Non esistono più queste cose” –, c’è l’horror che incontra la carica erotica, c’è il fumetto che incontra la fotografia che incontra la pubblicità che incontra il cinema, c’è il piano onirico che continuamente incontra e si mescola senza limiti ben definiti con quello narrativo, c’è un’iniziazione saffica forse destinata a virare nel sadomasochismo o forse destinata a rimanere desiderio, c’è un servizio fotografico di amore interraziale e c’è una porta dell’inferno che forse è solo una cantina, ci sono incubi di nazismo e seni al vento, ci sono condizionamenti e ammiccamenti, c’è lo scatto della macchina fotografica che diventa uno shot di morte e c’è una bambola di pezza con lo sguardo vivo armata di una forcina pericolosa. C’è il profondo senso di inquietudine che ancora oggi Baba Yaga, fra eros e stilettate sociali, riesce a suscitare nello spettatore, anche dopo il ritorno alla normalità, quando la valchiria decapitata è tornata un’innocua bambola, quando la strega è precipitata all’inferno, quando sappiamo che la sua casa è abbandonata da anni, e che forse tutta la catena di morte e terrore è stata solo un’illusione, un tratto di china su carta, un fumetto. Un sogno, affascinante, spettrale, irresistibile.
Marco Romagna