29 Settembre 2016 -

AVANZI DI GALERA (1954)
di Vittorio Cottafavi

Da Boccaccio in giù, la tradizione letteraria italiana è legata più ancora di altre alla raccolta di racconti. Nel corso degli episodi, cambiano i personaggi, cambiano gli scenari, cambiano magari anche le modalità narrative, ma non cambia la coerenza del percorso, l’unicità del pensiero, la tensione a un qualcosa di più grande che possa emergere dallo scorrere delle varie storie. I filoni narrativi indipendenti si possono intrecciare attraverso una cornice, attraverso uno o più personaggi, oppure attraverso un’impostazione metaforica ben precisa che sappia rappresentare un mondo, che sappia rappresentare un tempo, che sappia rappresentare vizi e virtù, tirannia e libertà, codardia e coraggio. Il Cinema, da buona evoluzione, ha saputo pescare a piene mani da questa florida tradizione, trovando una nuova via ben presto divenuta filone nella rielaborazione dei film a episodi americani degli anni Trenta, sapientemente intrecciati però secondo la coerenza narrativa tipica del repertorio novellistico nazionale. Si pensi ai molti esempi di film a episodi, a più firme o dello stesso regista, presenti nella storia di una commedia all’italiana che è stata capace, da Dino Risi a Mario Monicelli, passando per Antonio Pietrangeli e Vittorio De Sica, di dipingere negli abiti “leggeri” di un tradizionale lieto fine – staccando così sia con la stretta allo stomaco del neorealismo, sia con l’amarezza di fondo del neorealismo rosa – tutte le problematiche di un’Italia in radicale evoluzione negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, fra boom economico e aperture mentali e sessuali spesso confluite in crisi generazionali e riflessioni sulla famiglia. E si considerino soprattutto, a segnare il corso nel quale scorre Avanzi di galera (1954) di Vittorio Cottafavi, le fondamentali incursioni della messa in scena episodica nel dramma sociale o interiore, dal Rossellini di Paisà che già nel ’46 anticipava risalendo l’Italia questa tradizione “mosaicale”, al Pasolini dichiaratamente “novellista” della Trilogia della Vita, passando per RoGoPaG nel quale sempre Pasolini, spiccando per distacco su nomi del calibro di Gregoretti, Godard e, appunto, Rossellini, innestò quell’assoluto diamante che è La Ricotta.

Non è quindi un caso che, nei collegamenti più geniali e impensabili che Sergio M. Grmek Germani ama “mettere in scena” nel “suo” Festival I Mille Occhi di Trieste, la versione estesa di Paisà – una decina di minuti in più rispetto alle abitudini, quasi tutti passati nel Delta del Po dell’ultimo episodio – sia stata proiettata lo stesso giorno di Avanzi di galera, film tripartito con il quale Vittorio Cottafavi mettava in scena nel 1954 il difficile, per non dire impossibile, reinserimento degli ex-detenuti nella società. Sceneggiato da Siro Angeli, Avanzi di galera nei suoi tre episodi indipendenti è un melodramma, è un gangster movie ed è una commedia amara che non nasconde i suoi intenti di formazione. Sono sostanzialmente tre film in uno, di tre generi diversi, con tre modalità narrative e registiche quasi opposte, dove la riuscita nell’impresa di far convivere istanze cinematografiche apparentemente incompatibili è garantita dal tema in comune, del quale vengono portati tre esempi in grado di mostrare le possibili facce della stessa medaglia, protesi verso lo sguardo d’insieme. Non allegorie, ma veri e propri paradigmi di chi, nel primo episodio, è dilaniato dalla propria colpa ma vorrebbe essere reinserito per riabilitarsi, passando poi all’inguaribile gangster che, nel secondo, non vedeva l’ora di uscire per recuperare il bottino e ricominciare con la propria vita in fuga fra rapine e omicidi, per giungere infine all’innocente condannato ingiustamente del terzo e ultimo episodio, interpretato da un Walter Chiari mai così cupo ma al contempo inguaribile marpione, al quale basterebbe una sola persona al mondo che riesca davvero a credergli. La poliedricità di Cottafavi, fra i grandissimi registi troppo spesso riposti nel cassetto dell’oblio, nel mettere in scena generi così differenti mai si avvicina al semplice esercizio di stile, ma è al contrario assolutamente funzionale alla messa in scena di un’Italia ancora incapace di distinguere fra i tre esempi proposti e invece pronta a considerare tutti efferati criminali. Un’Italia ancora retrograda e bacchettona, come se l’essere stato in carcere – anche nel caso di un medico che ha cercato senza successo di salvare una vita o di un completo innocente incastrato da chi invece è rimasto a piede libero – fosse a prescindere una patente di persona inaffidabile, malvagia, da continuare a punire al di là del debito, già saldato, con la giustizia. Un problema di interesse nazionale su cui Cottafavi ha puntato il dito nel ’54, e potremmo aggiungere, ma questa è una riflessione estemporanea, che in questi sessantadue anni le cose non parrebbero essere particolarmente cambiate.

Eppure, nell’eclettismo registico sempre asservito alla ficcante lettura delle complessità e all’afflato umanitario che trova giocoforza la maggior parte della propria linfa nella messa in scena delle ingiustizie, Avanzi di galera mai si permette di giudicare i propri personaggi, e anzi trova forse proprio nel secondo episodio – il gangster movie, l’unico con l’“avanzo di galera” realmente connesso alla criminalità – i suoi maggiori picchi umani. In una tensione costante fatta di luci di taglio, snodi narrativi e movimenti di macchina che anticipano Fernando Di Leo e il Lucio Fulci “giallo”, pistole, pugni in faccia, inseguimenti automobilistici e un cattivissimo Arnoldo Foà nel ruolo del capo dei capi, il personaggio interpretato da Eddie Constantine si ritrova invischiato in una realtà che non ammette vincitori, ma solo amare sconfitte. Sono minacce, offerte, resistenze, vendette trasversali, fino a quel nascondiglio ormai vuoto, l’inutile conflitto a fuoco e il corpo inerme del protagonista che sparisce sott’acqua, fra i giunchi e la fanghiglia. Un’immagine forte, intensa, emozionata. Come quando, nell’episodio precedente, il dottor Luprandi (Richard Basehart), nel bel mezzo della lotta contro l’ospedale per riavere il suo lavoro e la sua posizione, si ritrova sotto casa la vedova del paziente perso alla base della sua incarcerazione a dargli ancora dell’assassino sperando così di ottenere, imbeccata da un avvocato con ben pochi scrupoli, ulteriori risarcimenti in denaro. Uno snodo narrativo che torna poco dopo, come voce fuori campo, come un fresco e traumatico ricordo pronto a compromettere la salute nervosa e l’effettiva capacità di operare del medico. La mano trema, il bisturi sembra pesare una tonnellata, e solo l’amata moglie – nel romanticismo splendidamente ostinato del melodramma – potrà riportare, a suo rischio e pericolo, il proprio marito alla normalità di un chirurgo talentuoso la cui unica colpa era stata quella di volersi prendere la responsabilità di un’operazione estremamente rischiosa e, come può accadere, andata male. A proposito del terzo episodio invece, quello con Walter Chiari, ci torna alla mente la realtà carceraria femminile messa in scena solo quattro anni dopo dal Renato Castellani di Nella città l’inferno. Dove il film di Castellani era stato capace di affidare all’innocenza perduta di una Giulietta Masina che passa da ingenua cameriera a scafata prostituta, a latere dell’intenso magnetismo di Anna Magnani, un’acuta lettura di quanto il carcere potesse cambiare profondamente, in peggio, le persone, Cottafavi prende il volto bonario e simpatico Walter Chiari e lo trasforma in una maschera agrodolce, da una parte disperato nella sua solitudine contro chi – a partire dalla propria famiglia e dall’avvocato incapace di difenderlo – lo crede colpevole, dall’altra gigione e cascamorto – si veda la sequenza sul tram – con l’infermiera che parrebbe l’unica persona disposta a vederlo come innocente. Un’ambiguità che rasenta quasi il bipolarismo, motore della commedia amara che chiude, ponendosi dalle parti del neorealismo rosa, il cerchio di uno straordinario film tripartito, in grado di far convivere – seguendo o anticipando – il melodramma di Raffaello Matarazzo con gli spari e gli inseguimenti di Fernando Di Leo, per poi passare a un Dino Risi che pare avere già un occhio a quella che sarà l’introspezione di Valerio Zurlini. Avanzi di galera è insomma un manuale di storia del cinema italiano intriso della più cocente umanità: un recupero prezioso, che meriterebbe gli scaffali d’onore e che invece giace impolverato nella memoria di pochi cinefili d’assalto. E non si può che sperare che questa riproposizione in 16mm al Mille Occhi sia solo la prima di una lunga serie di retrospettive, restauri e nuove (vecchie) luci sugli schermi.

Marco Romagna

“Jailbirds” (1954)
94 min | Drama | Italy / France
Regista Vittorio Cottafavi
Sceneggiatori Siro Angeli (scenario), Mario M. Averini (dialogue), Vittorio Cottafavi (adaptation), Gigliola Falluto (scenario), Giuseppe Mangione (scenario)
Attori principali Richard Basehart, Eddie Constantine, Walter Chiari, Antonella Lualdi
IMDb Rating 7.3

Articoli correlati

HEY JOE (2024), di Claudio Giovannesi di Marco Romagna
TAXI MONAMOUR (2024), di Ciro De Caro di Marco Romagna
BROKEN RAGE (2024), di Takeshi Kitano di Donato D'Elia
ANORA (2024), di Sean Baker di Marco Romagna
ANYWHERE ANYTIME (2024), di Milad Tangshir di Donato D'Elia
QUEER (2024), di Luca Guadagnino di Marco Romagna