Tra il ’99 e il 2000, il cineasta statunitense Stan Brackage lavora sui 18 episodi delle sue Persian Series. Fra le immagini che scorrono, dipinte e graffiate, fisicamente, su quei 16mm, dettagli tratti da un muro. Un muro che vuole dire morte, dolore, devastazione: quello della camera a gas. I graffiti, ultimo gesto di migliaia di uomini, donne e bambini, disperata richiesta di memoria. Brakhage ricalcherà questi graffi, frammenti di vite spezzate, e li ricomporrà, identici, in pellicola. Per ricordare, pensare, resistere. Vivere.
Capitolo 1
Torno su queste parole, forse vengo a loro per la prima volta, non so. Il muro di Ninive non c’è più. Non c’è più, distrutto da persone le cui fazioni poco importano ora. Scompare quel muro, eretto millenni fa, e con esso scompaiono quelle mani che lo costruirono, che lo toccarono, scompaiono quei graffi, delle memorie vengono a mancare. Alcune vite cessano di essere state, vengono cancellate dal percorso della storia. Una persona di cui non esiste segno, ricordo tangibile, è come se non fosse mai esistita (?)
Non sapevo i nomi di coloro che costruirono il muro, non conoscevo la loro camminata, non conoscevo le loro abitudini, il loro volto, i loro gesti, i loro amici, i loro figli. Non sapevo nulla di loro, questo è vero, questo non cambia. Ma avevo la coscienza che quelle mani, in quel momento storico, in un attimo di tempo che vale una scintilla in un fuoco, avevano toccato quelle pietre che formavano quel muro. Erano esistite, insomma, persone che erano state lì, di cui non sapevo nulla, se non della loro esistenza in quel momento della storia. Eppure… Eppure sapere anche solo della loro esistenza certificava la vita, la loro vita, in un qualche modo che ancora non riesco a spiegarmi, loro esistevano perché ricordate nel gesto, nell’atto che era il muro. Erano le loro dita su quelle pietre, il segno lasciato dalle loro mani a dire “ecco, io sono stato”. È qualcosa che colpisce la gola, sotto l’incrocio delle scapole, è come una pressione, quando si pensa a quelle memorie perse, a quelle persone cancellate. È un dolore, quasi. Un muro non serve solo a proteggersi, o meglio, viene costruito con quell’utilità, ma poi essa scema, scompare, viene sostituita da un’altra. Il muro diventa ricordo, diventa materiale archeologico. Protegge fisicamente, ma protegge anche la memoria, se ne fa carico, ne diviene esso stesso parte, immagine-simulacro, si potrebbe dire. Il muro che crolla non è solo il simbolo del nemico che invade e saccheggia, la caduta delle difese fisiche, è anche la resa, la sconfitta della memoria all’oscurità. Ci ho pensato molto in questi giorni, a questi attacchi. È una guerra contro la memoria storica e individuale, è quasi un tentare di relegare l’oggi all’oblio, ad una non-storia. Senza memoria il presente è l’unica condizione possibile, l’unica esistenza concepibile. Resnais, Tutta la Memoria del Mondo. È una dichiarazione di guerra contro l’archivio, le fonti, una vita esiste, muore e poi scompare. Ma alla fine le religioni non sono questo, non sono uno schermare il ricordo di una vita nel suo percorso nell’immanente? “Tu esisterai ancora, vivrai eternamente, questa vita sulla terra è solo un passaggio”. E allora questa trascendentalità destituisce tutto quel passaggio, lo immiserisce. Ricordo ogni passaggio da una stanza all’altra fatto nella mia vita? No. Quello che avviene qui, sulla terra, poco vale, nessuna archiviazione, nessun ricordo, vivete per arrivare ad altro. E allora la biblioteca brucia, nouvelle Alessandria, e si perdono modi di essere. Crolla un muro, arrivano i barbari a portare usi e costumi loro, scompare ciò che era prima, lo si cancella, damnatio memoriae.
Buffo: Ninive perde i suoi ricordi negli stessi giorni in cui viene ritrovato il più antico fossile di homo della storia. La prima memoria, 2,8 milioni di anni fa. Qualche dente, e subito torna dall’oscurità una vita, la più antica di tutte, rifiorisce un materiale mnemonico considerato scomparso, anzi, non considerato affatto, mica lo si sapeva che quella vita c’era stata un tempo. Se ogni cellula custodisse l’intera memoria di un uomo, una memory card organica, basterebbe estrapolarla per avere le immagini di una vita. Chissà se il possessore di quei denti ha mai graffiato una roccia? Chissà se è stato lui il primo a lasciare un segno, un’impronta. “ehi, guardate, io sono stato qui, testimonianza”. Sarebbe da cercarla e metterla vicina a quella di Neil. Due impronte, 30 centimetri e 3 milioni di anni, il primo passo. Etiopia come la luna, insomma. Scompare un’immagine, il muro, scompare l’immagine e la cosa da cui scaturisce l’immmagine, e intanto ne ricompare un’altra, (ri)compare un’intero immaginario. E l’archeologia è questo in fondo, no? È il cercare le immagini nascoste, Straubianamente cercare le immagini dentro le altre immagini. il più grande nemico dell’archeologia dunque è l’invasore, è il fuoco antiluce, la luminosità fredda di alcune stelle dell’universo. L’immagine di una cosa, un simulacro di una vita, crea ricordi. “Il cinema crea ricordi”, ed eccolo che torna, l’operaio del cinema, di nuovo lui, di nuovo a registrare i suoni di porte che si aprono alle sue parole. The sound of the opening doors. E allora bastano 4 denti per ricostruire un sorriso, un volto intero, per supporre una camminata, per disegnare un corpo, per teorizzare pensieri e sogni. L’immagine che crea ricordi, che dona la memoria. E ora mi viene da pensare ad una follia, che la memoria non provenga da un nostro automatismo, da quel cavalluccio marino che sonnecchia nella nostra parte temporale, ma che la memoria sia già in potenza nell’immagine, che l’immagine crei il ricordo indipendentemente, a cui noi poi perveniamo. Fiat lux, sia fatta l’immagine, sia dunque creato il primo ricordo della creazione. Scrivo queste cose alle due di notte, e forse un po’ mi allontano dalla strada che avevo intrapreso, ma pazienza, siamo archeologi quest’oggi, seguiamo la traccia. Il muro crolla, crolla l’immagine e quindi la memoria che in potenza stava nell’immagine, crollano, a ben dire, tutti i ricordi creati da esso. Mi cadon gli occhi su una foto di mio nonno. L’ho usata poco tempo fa per un progetto, una cosa molto intima. Peccato, il ricordo di mio nonno sta svanendo, ho solo qualche frammento qua e là, una pasqua con un leone gigante di peluche, la sua risata nasale, le sue sopracciglia da gufo. Cerco di mettere a fuoco quello che era, nei dettagli. Nulla, sfugge come fumo. Mi spiace molto non avere ricordi nitidi. Ho voluto molto bene a mio nonno, è stato la prima persona che mi ha amato nonostante i miei sbagli, il primo di cui abbia coscienza. Dovrebbe essere luminoso nei miei ricordi, invece il tempo intacca tutto. Rampicanti che stringono e soffocano la facciata della mia casa. Non entra più luce da quelle finestre ormai inghiottite. Ma guardo la sua foto ora, lo guardo tenersi per mano con mia nonna, e, giuro, i ricordi tornano, sono di nuovo lì, nitidi, luminosi, pieni di vita e calore. E non solo, cavolo, in questo istante vengo invaso da ricordi di cui non ero più cosciente, tornano alla mia mente memorie che forse nemmeno erano più dentro di me, ma stavano in potenza nell’immagine. Ecco, ora mi fermo un attimo dallo scrivere, sto un po’ con mio nonno.
Capitolo 2
Apro il pc. Hanno raso al suolo Nimrud, hanno preso i buldozer e hanno distrutto tutto, pietra per pietra. È mai esistita Nimrud? Non lo so.
Ogni uomo è la prosecuzione genetica di chi è venuto prima di lui. I geni altro non sono che memoria organica, sono immagini che in potenza racchiudono il padre, la madre, il nonno, l’avo. Adesso mi alzo e vado in bagno. sono davanti allo specchio, voglio la pratica di quello che vado a teorizzare. I miei geni custodiscono delle immagini ben precise: gli occhi di mia madre, il suo naso, le sue labbra. Questa massa di peli incolta, l’immagine di mio nonno. E poi questo taglio del viso, i capelli ormai radi. È un’immagine che non mi piace per niente, ma è parte di me; forse dovrei accettare l’immagine di mio padre, ma proprio non ci riesco. Ho un piede storto, il destro. Nessuno in famiglia ha una camminata come la mia. La mia ex ragazza affermava che paio un pinguino quando cammino per strada. E allora quest’immagine che mi connota, questo gene, da chi proviene? E i miei polmoni, così malati quando ero bambino? E il mio cuore, un poco ammaccato? Sono immagini che mi formano, che danno l’idea di chi sono, che mi fanno amare o odiare, e non so di chi siano, non ho idea di chi me l’abbia regalate. A casa tenevamo ritratti di persone che nemmeno conoscevamo, di cui non sapevamo nulla. Ci si sente estranei a quelli sguardi onnipresenti, un ospite che mica sai come è arrivato lì. È la stessa cosa. Vorrei davvero sapere di chi è questa camminata, a che immagine appartiene. Forse è la camminata di quell’uomo là, 4 secondi. Forse quella camminata, tra le macerie della città, dall’altra parte dell’oceano, un giorno sarebbe arrivata fino a qua, a Genova, avrebbe attraversato il porto, sarebbe passata di soppiatto tra i camalli, tra i loro figli, e sarebbe tornata in autunno. Il giorno dopo Branco avrebbe segnato il famoso gol su punizione contro il doria. 2 a 1. Ho ancora la foto, da qualche parte.
Ad ogni uomo dovrebbe essere data la possibilità di essere ricordato, di lasciare un segno, un’impronta al cui interno stiano le sue immagini in potenza. Non, come qualcuno afferma, per rimanere nella storia, che futile e sciocco questo pensiero, ogni volta che lo rammento sento la bile salirmi, ma per chi verrà dopo, per permettere di ricostruire una camminata. Basterebbero 4 denti, solo 4. Basterebbero per donare a colui che verrà la sua radice, le immagini che già suggerivano la sua, quella che sarebbe poi divenuto. E mentre premo queste lettere digitali viene spezzata anche Hatra. Ninive, Nimrud, Hatra. viene cancellata un’intera storia, un’intero momento dell’uomo non esiste più, si riscrivono le radici, si impongono. Migliaia di vite perdono le proprie impronte, vengono inghiottite nella cancellazione. Un buco nero, cosa potrebbe esserci di più deleterio per il cinema? Inghiotte la luce, non permette l’immagine, il buco nero, la massa dell’oblio . E queste migliaia di vite è come se non fossero state, si ricrea un nuovo inizio, il più favorevole possibile. È una costrizione, l’imposizione di un nuovo immaginario. Io, io che mi difendevo dal mondo con le mie radici, che trovavo la libertà del mio corpo nelle immagini genetiche che lo suggerivano, io ora sono prigioniero, perché quelle radici non le ho più. Ho una nuova genesi, come la volevan altri. Sì, perché con le immagini ci si difende, con quelle impronte ci si libera di un giogo, di un’imposizione.
“I rifiuti sono per sempre, ma la memoria è veramente fragile”, basta poco a cancellare l’impronta di un’esistenza, basta smuovere della sabbia ed ecco, è scomparsa. Siamo cosí fragili. Ma poi è arrivato il cinema. Il cinema, con la sua forza, con la sua semplicità nel registrare l’immagine di una vita. Il cinema a creare i ricordi, a creare e ricordare la storia. La pellicola, così rassomigliante ad una stringa di dna, ecco, salva le mie radici, salva ciò da cui provengo, mi proietta nel passato, io ero già lì, prima d’esistere. Santos, come Ulisse, va in Amazzonia. Le prime immagini del Rio, 1924, gli indigeni, la pellicola li salverà per sempre, esisteranno per sempre. Là sono stati, le immagini ricordano. Si salva un attimo che rimanda ad un’intera storia. Tutto quello che è stato l’Amazon salvato dalla luce. Un attimo e l’eterno. Eppure oggi, oggi che le immagini prolificano, che sono ovunque, oggi che il gioco dell’operaio del cinema, AH DIEUX!, viene masticato e rigurgitato per essere consumato su un cartellone pubblicitario di una macchina, mica ricordo quale, oggi le radici cadono. Perché io sono libero nelle mie immagini, suggerite, che mi mostrano la potenza che mi porto dietro, ma nelle immagini che mi sono imposte, lì io sono schiavo. Non sono più Straub, sono pornografia, sono un’immagine schedata e catalogata, non è quello che posso, è quello che devo essere. Basta un buldozer, vengono fatte crollare le immagini, altre a sostituirle, e queste hanno una frusta. Queste immagini sono un plantare per correggere un piede storto. Così deve essere. E se un piede viene corretto, viene cancellato colui da cui quel difetto proviene, viene usurpata un’immagine per imporne un’altra. Mi fermo un attimo, devo fare mente locale su quello che sto scrivendo. Mi ero detto poco fa tutto quello che avrei dovuto scrivere, ma già ho dimenticato. Se il cinema potesse nascere dal pensiero, immagini a scaturire dalla mente, chissà.
La storia è ricordare, ricordare è l’immagine. Oggi si cancella la storia, si fluttua in un eterno presente atemporale, che non scorre mai. Se lanciassi la penna che tengo in mano contro il muro, forse nemmeno lo raggiungerebbe, si fermerebbe a mezz’aria, come la freccia di Zenone. È un pendolo eternamente fermo, sospeso nel tempo, questa è l’immagine di cui siamo vittime oggi. Oggi cade Hatra, scompare per sempre, e scopro che sarò presto zio. Queste casualità mi colpiscono sempre. Era tanto che non avevo rapporti con mia sorella. Sono io stesso un potere, un tiranno, e avevo deciso di cancellare la sua immagine dalla mia vita. Non sono poi molto diverso da chi fa crollare il muro di Ninive. Ma diventerò zio, e penso a questo bambino, non potrebbe essere altrimenti. È quasi istintuale, tutti i discorsi che mi faccio ogni giorno, sembrano quasi fatti per lui. Mia sorella lo chiamerà Giacomo, come mio nonno, quello della foto. Quando diventerà grande, forse, avrà una massa di peli incolta, e qualcuno dovrà spiegargli da dove provengono, dovrà mostrargli quelle immagini. Sembra quasi un segno, un cerchio che si chiude. Devo restituire a quel bambino, a quel nome, l’affetto che io ricevetti dallo stesso, anni fa.
E il cinema aiuta a capire delle cose, e devo recuperare un rapporto, con mia sorella, e proteggere delle immagini per un bambino. E allora parto con mia sorella, andiamo a trovare mia madre. Mamma abita lontano, col nuovo uomo che ama, e ci si vede poco. Ha i capelli grigi ora. Sembra mia nonna, stanno venendo fuori i suoi tratti, sempre più evidenti. Parlano del bambino, io guardo, un po’ distante. La prima immagine del bambino, quella rotondità della pancia. Ma di già? Così presto? mi volto, e la tv è accesa. Renzi e Salvini. Anche loro stanno usando i buldozer. Parlo con un mio amico al cellulare. Renzi, di nuovo. Vuole cancellare il 25 Aprile, sostituirlo con una domenica forfettaria. In questa società un giorno di lavoro non va perso. Mi volto nuovamente, cellulare in mano. Ancora quella rotondità. Chi spiegherà a quel bambino cos’era il 25 Aprile? Chi gli donerà quelle immagini, per difendersi dal mondo. Un colpo di martello, il primo mattone delle camere a gas è crollato.
Maurizio Marras