«Se non parli di soldi non mi interessa […]
Non vendere in zona che poi a qualcuno interessa
Ci prendiamo tutto con gli interessi»[Wayne Santana in Non mi interessa della Dark Polo Gang]
Yuri Ancarani quest’anno ha portato in Orizzonti al festival veneziano un film che, con apparente non chalance, porta al cinema e rende cinema la parte di Venezia che non è vista, che non è sotto i riflettori, che non è raccontata, mostrata, vissuta al Lido effettivamente durante il festival. È andato attorno alla laguna e ha costruito o ricostruito Atlantide, la città-mare che non esiste rendendo evidente che invece qualcosa c’è. È Venezia, una città che ogni giorno muore e rinasce. E se Venezia muore e rinasce, se è un luogo di pura gentrificazione, un centro nevralgico del turismo mondiale, un simbolo dell’Italia più bella, se è la città delle gondole e quella mondiale del cinema, come si può raccontarne la rinascita, la vita, senza scendere in retorica? Il regista di Ravenna, che per la prima volta si addentra nella finzione, decide di provare a conferire, coi mezzi che può, un’epica plastica, musicale, eroica ai bassifondi, alle macerie, alla città allagata e ai confini della laguna dove abita anche chi a Venezia centro non c’è mai stato. Giovani, e quindi il futuro, che però non hanno sogni, non hanno ambizioni, sono provinciali con ambizioni provinciali. Il protagonista è Daniele, e l’unica cosa che vuole è superare i record di velocità su acqua dei suoi compaesani con la sua barca, che si chiama Maila, come la sua ragazza. Lui non è un’icona del proprio ruolo, come i protagonisti del Neorealismo, bensì una carta bianca su cui lo spettatore può dipingere quello che vuole, vedere quello che vuole, che sia inettitudine o grandezza: non c’è indulgenza o moralismo nella modalità di racconto di Ancarani. Ma c’è una volontà a creare simbiosi, a dare esplicitamente allo spettatore input che gli permettano di capire cosa, per Daniele, è la vita, il raggiungimento di uno scopo, quali sono le sue prerogative, quali le emozioni prioritarie e i bisogni materiali più essenziali. Per averne una dimostrazione è sufficiente la scena in cui, appena modificato il motore della “Maila”, Daniele sperimenta i recenti ritocchi sfrecciando per la laguna, finché non viene avvistato da una guardia di finanza in barca che lo insegue; Daniele gli sfugge miracolosamente, e mentre si allontana non lo vediamo mai nel volto, come non vediamo il finanziere. È sfuggito anche a noi. È una scena un po’ troppo costruita, forse neanche in modo quadratissimo, ma ciò perché è frammentaria, come per certi versi è tutto il film – una scelta che dà al tutto non tanto una dimensione “reale” (o realistica) quanto dei connotati che esplicitano un fare documentaristico molto espressivo, narrativo. Un voler raccontare la realtà con mezzi e approcci rassomiglianti la pura, drastica finzione. L’immaginario della generazione messa in scena del resto è quello di chi non vuole vedere una realtà come è, è chi vede la realtà espressiva, soggettiva di un’esperienza costante, sfuggente, bombardata di informazioni. Il realismo della generazione Z è cosmico-plastico, enfatico, videoclipparo, non è realismo: è irrealtà è più vera del reale.
«Lascia stare i sogni», dice Daniele a Maila. Sembra la frase all’ingresso degli Inferi danteschi, sembra che per far parte di questa vita, per «entrare» nella sotto-Venezia del materialismo “povero” degli adolescenti veneti, non bisogna pensare al mondo in grande. Tendere, forse, a una grandezza immaginabile, presumibile tra le righe di questa esistenza. Una ‘grande bellezza’ che in realtà è evidente, sotto il naso di tutti, ed è Venezia, la città dentro l’alluvione. La Serenissima, che muore per noi ciclicamente ogni giorno. È tutto maestoso, ma lo vediamo attraverso la fessura, la lente di Daniele, che vede il tutto più grande di quello che è, una ‘recherche’ che brancola nel vuoto – un vuoto gigantesco, ma pur sempre un vuoto. Un vuoto nel futuro, un vuoto nel presente: ma chi ci dice che questo vuoto non può essere più grande di noi che guardiamo? Il documentario rimane un riferimento, ma la sua forma è definitivamente estetizzata, marginalizzata, rispetto a una ‘verità estatica’ herzoghiana potenzialmente ricavabile dalla suggestione, dall’esplosione ipercinetica della vita filmata. E, sia chiaro, Ancarani di rado monta insieme inquadrature veloci o usa la musica per intensificare l’immagine – o, meglio, il sound design e la colonna sonora tamarra (in parte di Lorenzo Senni e Francesco Fantini ma perlopiù costituita da pezzi, originali e non, di Sick Luke, giovane beatmaker trap divenuto famoso perlopiù grazie alle collaborazioni con la Dark Polo Gang, pionieri nostrani del genere in tutta la sua contraddittorietà) sono ben curati per un’esperienza di visione scorrevole, immersiva, quasi onirica nell’esagerata esposizione massimalista-espressionista delle situazioni, ma la musica non ha mai la funzione di intensificare l’immagine, mistificarla, bensì la accompagna, in un viaggio stranamente coerente. Stranamente perché i momenti di sublime sono ben inseriti nell’ingranaggio in modo da rendere spesso pura finzione e pura realtà indistinguibili, i momenti di cinema del reale sono amalgamati nel tutto con una patina che confonde, ammalia, fa annegare. La prima parte del film è quasi un puzzle, che tassello per tassello costruisce un affascinante affresco di vita trasformata in cinema, gesti minimi che minuto dopo minuto, stacco dopo stacco, tra frammenti, dettagli e immagini fuori fuoco, cominciano a creare un’immagine in qualche modo completiva, un disegno che aumenta di dimensione e portata. Quando Daniele, Maila e la loro “Maila” sono ben a fuoco, nella parte centrale del film, la forma pseudo-documentaristico-osservativa si trasmuta in una sorta di ibrido reale/finzione in cui tutto è concesso, anche il videoclip puro. È un film à la Spring Breakers, che cerca di evocare la forza di ciò che è invisibile, eterno, straordinario nella quotidianità pop dei giovanissimi. Ciò che pare squallido e fatuo diventa una preghiera, un tentativo di trovare il sacro nel profano, con grande libertà.
Userò la prima persona per una breve parentesi personale. Quando per la prima volta la mia migliore amica, dei dintorni di Milano, è venuta a trovarmi in Toscana e ha conosciuto la cultura delle mie zone, della provincia tra Firenze, Pisa e Livorno, mi ha detto che è incredibile che la mia regione, una delle regioni più famose del mondo, dietro la conclamata bellezza della natura e delle gesta dei grandi uomini che hanno camminato nelle nostre terre, abbia nel suo seme, nella sua cultura territoriale e provinciale contemporanea e vera, «tutto questo», ovvero una vitalità così umilmente becera, una volgarità così sincera, una bellezza così vaga. Mi ha fatto pensare. Mia madre e mia nonna sono venete (e mio padre è calabrese), ma non ho mai vissuto molto le loro regioni, la Toscana è sempre stato il “mio” territorio, il “mio” mondo; eppure, proprio perché mi sono sentito dire una cosa del genere, nel Veneto e nella Venezia di Ancarani ho visto proprio «tutto questo», le ambizioni nascoste di un luogo e di chi vi abita. Sentire dire «anca massa» come mia nonna mi ha fatto capire quanto in questa menzogna ci sia una potenzialità esplosiva di verità. Daniele non cerca la trascendenza: quando si lascia con Maila strappa il nome della ragazza dalla sua barca e va a pippare e a scopare con un’altra passando sotto i ponti del capoluogo veneto in uno sforzo disperato di joie de vivre scoppiettante in mezzo alla decadenza. Eppure la trascendenza Daniele la trova, il suo sentiero è segnato dal destino a una tragedia che Ancarani cerca di rendere credibilmente reale con un TG che propone la sua morte come un fatto di cronaca. Ma è un’illusione. Dopo il suo funerale vichingo simbolico, ennesimo gesto etereo ed estremo che crea cinema ove sembra non doverci essere, i ragazzi sfrecciano in barca attraverso la città devastata da un diluvio e la cinepresa svolazza ribaltata di 90° sotto i ponti in un viaggio psichedelico lunghissimo, una visione postmortem che trova l’irreale nel reale dopo aver cercato di rendere il reale finto per tutta la durata della storia. Per quanto nella visione di Ancarani ci siano uno slancio e un eccesso retorico che potenzialmente stroppiano (la musica sul finale ha una teatralità fuori luogo; l’unica critica estrema che muoverei verso l’esperienza del film), con questo finale l’immedesimazione diventa distacco, la materia diventa astrazione, la visione dell’invisibile diventa non-visione del visibile. Atlantide è un gesto descrittivo che si fa arte, senza mediazioni di sguardi apparentemente reali. È un piccolo enigma, per certi versi, perché sembra innovativo e importante senza avere un messaggio, viaggiando alto nel vuoto conclamato. E, anche a causa di ciò, è uno dei pochi film contemporanei a dire davvero qualcosa di sensibile sulla situazione esistenziale della gioventù italiana del nostro presente.
Nicola Settis