ATHENA (2022), di Romain Gavras
Romain Gavras, figlio del maestro greco poi naturalizzato francese Constantin Costa-Gavras, ha una caratteristica che da sempre fa parte del suo multiforme percorso artistico: se vede un fuoco acceso, sopra ci versa benzina e mai acqua. Creatore poliedrico, cofondatore del collettivo Kourtrajmé, regista di corti, medi, lunghi e, soprattutto, autore dei videoclip più controversi (e influenti) del XXI secolo quantomeno a livello europeo, il figlio d’arte arriva per la prima volta in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con Athena, anche scritto in trio con Elias Belkeddar e, soprattutto, con Ladj Ly, Gran Premio della Giuria a Cannes qualche anno fa con I miserabili. Tra tutti i film presenti alla Mostra è questo di sicuro il più divisivo, quello che suscita dibattiti continui, con detrattori ed estimatori l’un contro l’altro armati, come se la furiosa battaglia vista sullo schermo non potesse far altro che continuare fuori con altri mezzi, questa volta dialettici. Siamo sicuri che Gavras, proprio per quanto detto in precedenza, sarebbe felicissimo di tutto questo. In questa sede si cercherà di trovare una mediazione invece, e d’individuare difetti (innegabili) e pregi di un’opera che osa l’inosabile: tentare la fusione tra il cinema videoludico dei David Leitch e dei Chad Stahelski e quello sociale “da banlieue” che ha proprio nel cosceneggiatore Ladj Ly l’ultimo grande rappresentante, anche perché proveniente proprio da quelle realtà. Niente di nuovo, sia chiaro (basti pensare ad Attack the Block di Joe Cornish, per citarne uno soltanto, che univa il cinema d’invasione aliena alla rappresentazione della vita delle gang giovanili nella periferia londinese), ma le contorsioni ideologiche dello script hanno indignato, e anche a ragione, più di un critico. Specie per una sequenza finale che qui non menzioneremo, e che applica uno scarto di senso tardivo nella tempistica. Prima, però, c’è l’inferno in Terra…
Un ragazzino tredicenne viene ucciso dopo un brutale pestaggio della Polizia, l’azione è ripresa da uno smartphone e il video diventa presto virale incendiando letteralmente il quartiere parigino periferico teatro dell’accaduto, l’Athena del titolo. Incomincia una guerra urbana cruenta tra i giovani della banlieue e gli agenti, di cui vediamo, nella prima sequenza, l’innesco: alla conferenza stampa che cerca di spiegare i fatti (alla quale è presente anche il fratello militare della vittima, Karim, proprio per cercare di stemperare gli animi), effettuata davanti alla centrale, una molotov scagliata contro il palco improvvisato scatena la guerriglia. Parte l’assalto alla stazione della forza pubblica e, parimenti, un vertiginoso piano sequenza con la camera che attraversa tutti gli ambienti devastati, segue gli assalitori dentro un furgone requisito, ne esce per atterrare su una moto nella corsia accanto dell’autostrada, rientra nel furgone per poi arrivare al quartier generale dei ragazzi, dove alcuni scendono e altri ripartono. Abbiamo descritto solo il primo (e il più lungo) della congerie di piani sequenza di cui l’ora e mezza abbondante di proiezione è composta, il più vertiginoso e quello che più rimane nella mente degli spettatori. Anche perché qualsiasi piatto succulento, al settimo/ottavo bis, comincia a diventare indigesto: un approccio così aggressivo e muscolare alla lunga tende a frastornare, e all’esclamazione di meraviglia subentra presto il mal di testa. La lunga battaglia iniziale, il trinceramento nel fortino, i primi assalti dei reparti speciali della Polizia sono orchestrati con movimenti, tattiche e dinamiche da battaglia medioevale e, di conseguenza, fantasy, con precisi richiami al “fosso di Helm” tolkieniano/jacksoniano in almeno un paio di punti. Un innegabile punto di forza, e una declinazione tra action e war movie di grande fascino e impatto con due eserciti, uno organizzato e uno improvvisato, impegnati in una contrapposizione tattica, e dove le motivazioni degli improvvisati fanno sì che la disparità di forze risulti attenuata. Tantissimi precedenti, naturalmente, nella storia del cinema e nella Storia tout court, e una maniera di eradicare questa rivolta sociale dal suo contesto per elevarla al rango di epica contrapposizione tra popolo e Sistema. Già nel suo famoso videoclip del 2008 del brano Stress del duo Justice, tarda emanazione dell’ondata electro transalpina meglio nota come “French Touch” (che ha avuto in Air e Daft Punk i gruppi di punta), Romain Gavras filmava del resto una gang impegnata in atti vandalici gratuiti e violenti, agenti del caos impegnati a picchiare, molestare e spaccare qualunque cosa si trovassero davanti. Ed è probabilmente la collaborazione con i suoi sceneggiatori ad aver disinnescato questo aspetto inscrivendo il film nel solco della tragedia greca classica, su tutte I sette contro Tebe di Eschilo (ma naturalmente anche il quartiere scelto per titolo e azione richiama alla mitologica divinità della guerra). Al centro del caos quattro fratelli, parcellizzazione un filo programmatica delle parti in causa: il maggiore, Moktar, è uno spacciatore di cocaina, il secondo, Abdel, è come abbiamo già detto un militare, il terzo, Karim, è il capo dei rivoltosi e il quarto, Idir, è il ragazzino che purtroppo ci rimette la pelle. Una famiglia che contiene i vari livelli d’integrazione possibili per i cittadini francesi d’origine nordafricana, e che l’elemento che dovrebbe rappresentare un futuro (possibilmente migliore) venga violentemente spazzato via non è di sicuro un caso. La matrice caratteriale comune ai tre sopravvissuti viene fuori pian piano, e diventa chiaro che tra scelta ed occasione il confine può diventare davvero labile.
Affibbiare alla Polizia un omicidio così odioso come quello di un ragazzino innocente dev’essere sembrato troppo anche a Gavras (o magari ha ricevuto pressioni, in primis da Netflix che distribuisce il film) e allora i “cattivi” potrebbero non appartenere ai corpi dello Stato ma a un altro gruppo organizzato in maniera paramilitare, dei neofascisti di estrema destra. Su questo punto si gioca una grande parte della possibile ricezione dell’opera: siamo davanti a un tentativo ipocrita di affibbiare altrove le responsabilità della guerriglia urbana o magari il regista e i suoi collaboratori ci stanno dicendo che le categorie vanno aggiornate al presente e quindi oggi l’attacco allo Stato non è più portato in senso rivoluzionario ma reazionario, da forze destrorse e spudoratamente populiste? Un dibattito interno al film e alla Mostra in corso, ma anche LA questione con cui dobbiamo fare tutti i conti, istituzioni e cittadini. Le guerre, da sempre, nascono anche da una bugia, da un fraintendimento, e quando il dolore intimo è troppo grande è facile perdere lucidità, consegnarsi alla violenza, ritenere uno Stato innegabilmente debole meritevole di estinzione. Gavras, usando come già detto metodi di ripresa ultramoderni per contrapposizioni anche molto antiche, vuole universalizzare il discorso: di sicuro non ci riesce appieno, l’impresa prefissasi è troppo ardua per le sue capacità, ma il tentativo va quantomeno riconosciuto. Se tanti maestri del cinema, negli ultimi anni, hanno parlato del presente rifugiandosi in un passato già decodificato e più facilmente aggredibile (e parliamo dei più grandi, a partire da Quentin Tarantino e Paul Thomas Anderson), non si può non riconoscere a Gavras di aver rimestato nel torbido, di aver messo le mani nell’imperscrutabile e complesso presente facendo l’operazione inversa, usando uno scheletro narrativo ultraclassico per applicarlo al contemporaneo.
Ed è proprio di scheletro che si può parlare, perché lo script è asciugato al massimo per quanto concerne dialoghi e snodi, e le azioni prevalgono nettamente sulle parole. La compattezza dei giovani è contrapposta a tutti gli altri del loro stesso “campo da gioco”: il rischio è tale che il palazzone popolare va evacuato, e le famiglie inizialmente rifugiate nello scantinato non sono dalla parte dei rivoltosi che, in linea teorica, combattono anche per loro. Ancora una situazione di scuola, la rivoluzione senza il consenso del ventre molle del popolo. Una battaglia senza possibilità alcuna di vittoria, solo un furioso clangore di bastoni e ormoni, con l’esercito improvvisato che ruba le proprie divise alla squadra di calcio locale. Torniamo al punto per l’ultima volta: l’integrazione sociale attraverso sport, opportunità, lavoro è ancora possibile o è il momento di consegnarsi alla criminalità e/o spaccare tutto? Il miglior cinema “politico” di genere nasconde abilmente sotto il primo livello d’intrattenimento puro dei concetti che arrivano sottopelle anche allo spettatore più sprovveduto e restìo alla riflessione; qui siamo di fronte a un’opera che verrà esperita principalmente attraversi schermi di computer e videofonini, che potrebbe contemplare l’aggiunta di un’opzione col joypad per muovere i personaggi a proprio piacimento, e che però dice (o prova a dire) tutto quello che abbiamo cercato di riassumere in queste righe. Si può non condividere, si può storcere il naso, si può avere ogni tipo di dubbio etico e formale. Ma forse il linguaggio adatto per parlare di istanze sociali alle nuove generazioni è proprio questo.
Donato D’Elia