Basta aprire l’acqua del rubinetto per attirare il maligno. Prima sono solo imprecisate inquietudini, poi sono voci e rumori che sembrano provenire dallo scarico, poi è l’impossibile ripresentarsi in piena decomposizione di chi – cane o bambino – era morto qualche giorno prima, e infine non rimarranno altro che il sangue, la morte, il più puro terrore. Quello di un marito impotente di fronte alla moglie che, già esanime, continua a fluttuare andando a sbattere da una parete all’altra del bagno inondando i muri di sangue, quello di un uomo sgomento in mezzo alle figure nude che, apparendo, scomparendo, staccando prese di corrente e attaccandolo all’improvviso, spuntano da sotto il suo letto per rientrare nell’armadio, oppure quello di una madre che non riesce ad arrendersi alla morte del figlio e che impazzirà definitivamente di fronte al suo posseduto ritorno. Con un’angoscia ancestrale che è anche quella degli scienziati, dei poliziotti e dei sensitivi che, nella speranza di capire, documentare e contenere il Male e l’inspiegabile, entrano come consapevoli esche nelle case maledette. Non ha particolari pretese Aterrados, letteralmente “Atterriti”, “Terrorizzati”, “Agghiacciati”. Non ha particolari significati reconditi e nascosti da decodificare, non ha chissà quali metafore storiche, politiche e sociali o riferimenti culturali da analizzare, non ha messaggi da lasciare scritti fra le righe del terrore. Quello che importa al regista argentino Demián Rugna, nel suo terzo lungometraggio “apparso” come midnight screening al Trieste Science+Fiction Festival 2018, è semplicemente spaventare, impaurire, tenere in tensione, far saltare sulla poltrona di fronte all’inspiegabile, al paranormale, al soprannaturale, al Male assoluto che prende corpo in un piccolo quartiere di Buenos Aires. E, fra ribaltamenti dei cliché e inedite intuizioni, trovate a effetto e rielaborazioni del genere fra «il nido» del Male e il suo propagarsi, ci riesce alla perfezione, lavorando sulle forme del racconto e sulla sua messa in scena, sugli immaginari preesistenti e sulla loro rielaborazione, alla ricerca dell’origine più intima e atavica della paura.
Bastano tre case e un commissariato, bastano un inizio in medias res, un flashback e una notte di immersione nell’orrore, bastano un immaginario di figure che emergono dalla notte e una messa in scena di lenti movimenti di macchina fra le carrellate verso l’ignoto e le porte che si aprono alle spalle. Bastano un uso sapiente delle musiche e una spiegazione pseudoscientifica di fratture fra le dimensioni che renda credibile l’incredibile, basta una crepa sul muro ad allargare di casa in casa come una malattia la portata della maledizione, basta la completa inadeguatezza dell’uomo di fronte a forze incontrollabili, troppo più potenti, troppo pericolose per la sua umana fragilità. Basta non avere paura di fare paura, basta osare, basta addentrarsi nel buio e nelle tracce di sangue, ed ecco che, un po’ come le inquietanti figure non umane prendono possesso delle case, dei corpi e della psiche di chi le abita, sullo schermo si materializza a rinverdire la migliore tradizione orrorifica argentina il climax di un’angoscia mai “facile”, mai stucchevole, mai forzata o scontata nelle sue forme, ma travolgente come un’onda, percepibile come un rumore, fisica come una sedia improvvisamente lanciata verso l’obiettivo, o come una creatura demoniaca nascosta in un pensile che succhia il sangue degli uomini dopo averli attaccati con forchette e coltelli.
Nell’atmosfera macabra e crepitante di Aterrados, gli uomini non riescono a dormire fra rumori e oggetti che si spostano, i bambini riemergono dalle tombe per ripresentarsi a casa ancora morti e sporchi di terra a (non) sgranocchiare cereali, i poliziotti «si cagano addosso» fra problemi di salute pregressi e infarti di puro spavento, i vicini di casa si rendono conto che c’è qualcosa che non va e anche la razionalità della medicina legale (che già si era sentita più volte afferrare un braccio dal cadavere di turno durante le autopsie) non può fare altro che rivolgersi a chi meglio conosce il paranormale. Magari incontrando la dottoressa Rosentock, esperta di occulto fra pendoli e vibrazioni, già di fronte alle case in cui si stanno verificando i più strani fenomeni dopo essere stata contattata dalla prima vittima, e portandola a rendersi conto di come il “problema” si stia allargando a macchia d’olio tanto da richiedere l’intervento, altrettanto inutile di fronte alla potenza epidemica delle presenze, del medium Allbreck. Fino alla notte in cui i tre protagonisti, con il commissario di polizia a inseguire il montaggio alternato cinematografico nel fare da spola fra le tre case, si chiuderanno nel Nido in attesa degli eventi, per cercare di capire con una nuova prospettiva se e come poter arginare ciò che nemmeno le fiamme potranno circoscrivere. Ben consci di non dover credere a tutto ciò che vedranno, ma al contempo perfettamente consapevoli che potrebbe essere la loro ultima notte in vita e che la loro morte li potrebbe trasformare in una costola del Male, in una sua nuova incarnazione, in una sua nuova arma.
La figura che sguscia fuori dal muro in tutta la sua lentezza e inesorabilità, così lontana dagli stereotipi del genere e dagli effetti sorpresa eppure così profondamente spaventosa nella sua natura maligna, incarna tutta l’inquietudine e l’angoscia di Aterrados, mentre Demián Rugna procede per accumulo, costruendo un percorso sempre più terrorizzante, sempre più opprimente, sempre più inedito nel suo commistionare suggestioni originalissime con un intelligente scavare fra Hollywood e il Giappone alla ricerca degli elementi fondanti del genere (le figure che sfrecciano nel buio, gli oggetti che si spostano, le orme che infangano anche il soffitto, i bambini morti che ancora si muovono, le figure infernali che escono dai muri) per innestarli in nuove declinazioni che cambino anche radicalmente la loro funzione e la loro effettiva minaccia. Basterebbe in tal senso pensare alle classiche apparizioni/sparizioni dietro alla finestra della casa di fronte, con la creatura malefica che, all’improvviso, si materializza ancora una volta proprio di fronte a chi la sta guardando riscrivendo il senso stesso dell’effetto sorpresa abbinato alla suspense, oppure si potrebbe citare ancora una volta il ritorno a casa del bambino morto, così apatico e spettrale nel suo (non) immobilismo impastato di terra e decomposizione da far venire subito in mente il Kayako dell’originale nipponico The Grudge eppure dal ruolo così differente nell’economia del racconto, vittima ben più che entità malvagia, strumento nelle mani del maligno ben più che reale parte del maligno. Perché il Male elide i rapporti fra gli esseri umani, in Aterrados, li trascina nella sua spirale di terrore e di incomprensioni, li tortura, li uccide, li priva della volontà e della personalità trasformandoli in proprie (in)visibili propaggini. Un po’ come quando il dottore, dopo aver subito orride torture nella credenza della cucina, apparirà con gli occhi iniettati di sangue a spegnere con un semplice soffio i cerini che cercano di mettere fine all’incubo, oppure quando solo chi ha già avuto contatti con il maligno riuscirà a vederlo, a percepirne la presenza, a restituirgli un corpo, un nome e un volto, ma ormai non potrà in alcun modo fermare la furia di una possessione che, nel finale smaccatamente carpenteriano, rende fisico ciò che è più inafferrabile. Senza alcuna possibilità di scampo.
Marco Romagna