VAN GOGH – SULLA SOGLIA DELL’ETERNITÀ (2018), di Julian Schnabel
C’è un momento, a circa mezz’ora dalla fine di At Eternity’s Gate, in cui vediamo il protagonista Vincent Van Gogh (interpretato da Willem Dafoe, Coppa Volpi a Venezia 75 e probabile contendente ai prossimi Academy), appena scappato dall’istituto psichiatrico e appena ri-catturato dopo aver fatto inavvertitamente del male a una contadina di cui voleva dipingere un ritratto, seduto sul carro in direzione dell’ospedale mentre guarda il vuoto. È una delle poche inquadrature post-recisione dell’orecchio sinistro che si colloca proprio su quel punto di vista, non facendo esplicitamente vedere la ferita, ma facendola percepire con tutto il suo caldo dolore. Mentre il carro si sposta, la macchina da presa si alza spostando il fuoco sull’ambiente circostante: gli alberi sono spogli, il cielo è grigio, il mondo è privo di quel colore e di quella luminosità che sono punto di partenza della visione “febbrile” dei dipinti di Van Gogh. La macchina da presa scende ancora, e il volto distorto dell’artista non si è spostato, continua a guardare il vuoto, ma il suo volto comincia a esprimere, per pochi fotogrammi, un dolore irreprensibile e ancestrale. Il motivo per cui scegliamo quest’inquadratura, che durerà sì e no mezzo minuto, come punto di partenza per questa recensione, è per il fatto che durante la visione ci è parso essere questo il momento centrale in cui il regista Julian Schnabel, già cantore di biopic a tema artistico dai tempi di Basquiat (1996), riesce definitivamente a cristallizzare nel suo film una specie di soggettiva assoluta di Van Gogh, espressa solo mediante la macchina da presa. Non dobbiamo immedesimarci nel vero e proprio sguardo dell’artista, possiamo rimanere distanti da quello che lui vede, ma la mdp riesce a esprimere quello che c’è e quello che non c’è, quello che è dentro l’artista attraverso quello che è fuori. Come Van Gogh stesso, che attraverso le sue pennellate velocissime esprime l’idea di un neo-pittore che dipinge per pura necessità interiore di sfogo espressivo per superare l’alienazione e la follia. Schnabel, anche pittore, lo insegue con la cinepresa a mano, usando il grandangolo e riempiendo le inquadrature di distorsioni e di lens flare ogni volta che la macchina da presa deve corrispondere con lo sguardo dello stesso Van Gogh per cercare di immaginare la sua soggettiva sul mondo, conscio che anche se non ci dovesse riuscire in maniera sempre pienamente efficace At Eternity’s Gate rimarrebbe comunque il perfetto ritratto della sensazionalità dello sguardo di un artista folle. A volte sembra quasi che il film potrebbe benissimo anche non concentrarsi su Vincent, e che la sua sia una storia universale, la parabola cristologica di ogni incompreso. E il titolo, a questo punto, diventa importante, pregno di sensi: At Eternity’s Gate, già sottotitolo di un dipinto del pittore olandese, il cui nome principale sarebbe Vecchio che soffre, e che ritrovate qui sotto.
Il vecchio dolorante è sulla soglia dell’eternità in un dipinto che sembra colmo di disperazione, ma che col titolo riacquista un valore ulteriore rispetto alla banalità autoconclusiva della morte. L’eternità è proprio quello che attende Van Gogh, come esplicitano altre opere audiovisive che lo descrivono (Loving Vincent in primis col suo discorso sul falso storico come resurrezione, ma anche Sogni di Kurosawa, Vincent & Theo di Altman, o lo strappalacrime episodio di Doctor Who a lui dedicato), ma nel dialogo col prete interpretato da Mads Mikkelsen che si trova verso la fine del film di Schnabel l’idea stessa dell’eternità sarà portata in risalto come unica maniera per mantenere la memoria, tesoro complesso e collettivo, ancora intatta, facendola assurgere a qualcosa di ancora più ampio, intimo, sacro. Curata dal regista con Jean-Claude Carrière, collaboratore di Buñuel (Il diario di una cameriera e Bella di giorno, ma non solo), Brook (sua la rilettura del Mahabharata) e recentemente di Philippe Garrel (L’amant d’un jour), la sceneggiatura, che si adegua a una lettura recente della morte di Van Gogh che è presa in considerazione (ma non presa troppo sul serio) anche in Loving Vincent, mette qui in bocca all’artista la frase: «e se Dio mi avesse dato il dono di dipingere per persone che non sono ancora nate?». L’eternità è un disegno divino che, nell’ottica del pittore, figlio di un pastore e capace di conoscere la vita di Cristo anche meglio del prete suo interlocutore che disprezza freddamente le sue pennellate, corrisponde alla costruzione di un destino che va oltre quello che c’è nell’immagine. Sul finale, con la salma di Van Gogh al centro dell’inquadratura, c’è un sentore di un futuro di rivalutazione verso i suoi lavori; e quando attorno ai titoli di coda scopriamo che molti suoi disegni sono stati ritrovati nel 2016, si ha la sensazione di vivere quella che per Van Gogh sarebbe un'(altra) Eternità, il “paesaggio piatto” da sindrome di Stendhal che sconvolge i suoi occhi nella prima parte del film, prima di accusare i primi sintomi di follia per le strade di Arles. Dunque, con questo titolo, At Eternity’s Gate si lega a un’immagine estemporanea di tragedia inequivocabile e irrimediabile, pur ricordando da subito allo spettatore come questa impossibilità di scappare dal destino possa avere decine di sbocchi verso un tempo ‘altro’.
A livello registico e fotografico, il film ha passaggi particolarmente intensi: buona parte della narrazione è costituita da una non-narrazione della sofferenza e dell’estasi di Van Gogh in mezzo alla natura, il suo sguardo, il suo corpo sporco, le sue rughe. Dafoe costruisce un’interpretazione brillante proprio perché il suo Van Gogh non è una rappresentazione della sua storia, ma una messinscena universale di un delirio interiore. Si costruisce quasi una relazione simbiotica tra lui e la macchina da presa, che gli si avvicina anche in maniera estrema, pedinando ogni suo movimento ma soprattutto perseguendo la ricerca del Sole. At Eternity’s Gate, anzi, costituisce probabilmente un interessante dittico con il Turner di Mike Leigh, entrambe visualizzazioni alternative della poesia all’interno dell’inetto, entrambi film storici legati solidamente alle figure artistiche che raccontano pur descrivendone più i processi interiori che quelli esterni. Anche sostituendo momenti importanti con ellissi temporali, perché tanto queste figure liminali, Van Gogh come Turner, sono realmente microcosmi impenetrabili, percepibili solo attraverso immagini superficiali. Con Van Gogh abbiamo le lettere a Theo e a Gauguin, e una serie di altre prove scritte che ci danno impressioni e idee chiare sulla sua figura, ma com’è possibile catturarla davvero? La sceneggiatura di Carrière prova a costruirci qualcosa di nuovo e, anche se solo parzialmente, ci riesce. Sono i movimenti di macchina a dare corpo e immaginazione alla follia, al fuori campo, al mondo ricostruito attraverso lo sguardo dell’artista. Sono sublimi in particolare due momenti: la visita di Theo a Vincent in ospedale e la fuga di Vincent dalla chiesa dopo che Gauguin gli dice di volersene andare da Arles. Sono entrambi miracolosi piani sequenza ipercinetici, in cui i movimenti dei corpi sono seguiti alle volte con una precisione chirurgica spaventosa e alle volte con un continuo scompenso del moto della cinepresa, che caratterizza in maniera inattesa ed efficace tutto il problema di Psiche e di Fede che attanaglia il protagonista. E sono questi momenti empatici, insieme alla scena con il prete e a qualche momento meno narrativo, che ci danno l’impressione che At Eternity’s Gate sia riuscito a dire qualcosa di profondo, intelligente e originale su uno dei pittori più discussi di sempre, che sia riuscito a conferire una soggettiva cinematografica a un uomo il cui sguardo non è mai stato capito da nessuno durante la sua vita, e da pochi dopo la sua morte. Lo sguardo di un uomo «santo nello Spirito», o uno Spirito Santo.
Nicola Settis