ASURA: CITY OF MADNESS (2016), di Kim Sung-su
C’è un interstizio oscuro fra il potere politico e quello giudiziario. È un sottobosco viscido di corruzione, di populismo, di sfrontatezza senza pudori, dove l’unica arma a disposizione è la violenza, e i mezzi utilizzati dai gangster e dai procuratori distrettuali sono simili fino a coincidere. È la melma in cui sguazza il potere, quel ventre molle di tradimenti, ricatti e microspie in cui nulla è vero, nemmeno gli occhi, nemmeno le lacrime, e forse l’unica legge che ancora vale è quella del cane mangia cane. In questo ambito dipana la propria anima nerissima Asura: City of Madness, nuovo lungometraggio del coreano Kim Sung-su che trova la sua prima europea nella sezione Limelight del Festival di Rotterdam 2017.
Le forme sono quelle del noir metropolitano dalla narrazione vorticosa, e Asura: City of Madness fa egregiamente il suo lavoro di film di genere mettendo in scena senza lasciare un solo istante per rifiatare l’inabissarsi progressivo nell’incubo personale di Han, poliziotto non certo privo di pelo sullo stomaco ma ormai schiacciato fra i due fuochi, trovandosi da una parte cognato del sindaco corrotto e costretto per questioni di famiglia a svolgere lavori sporchi per il politico, dall’altra tenuto in scacco da uno spudorato e iracondo procuratore distrettuale che, forte delle prove dei suoi reati – fra cui l’omicidio preterintenzionale di un collega, del quale ha incolpato un informatore tossicodipendente – lo costringe a collaborare in un’azione segreta proprio contro il sindaco. In mezzo, a costringere definitivamente Han in un imbuto di dolore, l’amatissima ma trascurata moglie che ora si ritrova sul suo ultimo letto, quello dell’ospedale in cui può solo aspettare, fra atroci dolori e forti dosi di morfina, che il cancro di cui è malata terminale finisca di fagocitarla e definitivamente la vinca. Ma non è la malattia, il punto del film, che viene sì sfruttata per umanizzare il personaggio di Han e per contestualizzare la tragicità del momento della sua vita, ma assolutamente senza calcare la mano sui buoni sentimenti. Al contrario, quello messo in scena in Asura è un mondo oscuro di videocamere, di registratori nascosti, di doppi giochi, di tradimenti anche carnali, di filmati sui cellulari, di bugie, di atroci voltafaccia, di ricatti che non guardano in faccia nemmeno lo strazio di chi sta morendo. Non c’è spazio per l’umanità, in quell’interstizio melmoso fra potere e giustizia. C’è spazio solo per la morte, che sia un cadavere trovato nelle Filippine, un collaboratore lanciato sotto a un camion dall’auto in corsa, oppure l’ultimo proiettile di una rivoltella che si pensava ormai scarica.
Sin dall’incipit in medias res, in cui Han si ritrova a far ritrattare un testimone che avrebbe potuto fare luce sulle attività illecite – traffico di metanfetamine, si scoprirà – nelle quali è implicato fino alla punta dei capelli il cognato sindaco, Asura: City of Madness sfoggia capacità tecniche e narrative che si rifanno non solo alla migliore scuola del film di genere asiatico, ma anche alla Hollywood del fellas movie, da Scorsese a Tarantino. L’apice dell’azione arriva al momento dell’inseguimento automobilistico, a velocità folli sotto la pioggia notturna per le autostrade che solcano la città. Nello speronarsi delle vetture, mentre qualcuno spara e qualcuno finisce contro il guardrail, in attesa che le auto finiscano cappottate e che Han, per recuperare la sua pistola, scopra così finalmente la natura dei traffici del cognato, la macchina da presa riesce, con sfoggio di capacità tecniche ai limiti dello straordinario, a compiere un raffinato quanto arzigogolato movimento, prima circolare e poi che passa più volte dall’interno all’esterno delle autovetture, fra l’immagine frontale di chi sta guidando e la sua concentrazione che traspare fra le righe di pioggia sui vetri, interrotte ma non risolte dal breve passaggio dei tergicristalli.
“Nel mondo ci sono due tipi di bastardi: quelli che capiscono subito quali sono le offerte da accettare e quelli che si ostinano a rifiutarle. Lei che tipo di bastardo è?”, chiede il sindaco al procuratore, ricevendo come risposta un “Spero che lei non sia uno di quei bastardi che si perdono in preamboli senza arrivare al succo del discorso”. E in questo dialogo sta tutta l’anima del film: tutti, chi più e chi meno, sono bastardi; tutti, chi più e chi meno, hanno un prezzo; tutti, chi più e chi meno, hanno una convenienza ad accordarsi, e se così non fosse, non resta che passare all’acciaio e al piombo, alla violenza e al sangue, ai proiettili e alla morte. Fra telefonate, incontri, inseguimenti, omicidi e attacchi delle peggiori prezzolate gang, il pubblico rimane invischiato insieme ai personaggi in una scatola di giochi di potere che si rivela una sapiente matassa narrativa, che più sembra chiarire qualche punto più si ingarbuglia, in una costante tensione destinata a crescere progressivamente e a stringersi come un cappio intorno al collo del protagonista. Fino a quando Asura: City of Madness non potrà che deflagrare nell’ultima sezione, in cui la lotta diventerà un tutti contro tutti di solo sangue.
Asura: City of Madness è un film notturno, in cui l’ambiente metropolitano di questa città fittizia della Corea del Sud, fatto di luci al neon e di vetrine rigate dalla pioggia battente, è un vero e proprio personaggio: è il luogo che ospita la follia collettiva, è il luogo in cui i rapporti di fiducia stanno ormai a zero, è il luogo in cui esiste solo la convenienza, esiste solo l’interesse, a costo di ricattare e uccidere complici e testimoni per poi magari presentarsi in lacrime al loro funerale, e finire per trasformarlo in una nuova e definitiva carneficina. Eppure, la città di Asura potrebbe essere una qualsiasi città in Corea e nel mondo, una qualsiasi città in cui le mani non possono rimanere pulite, una qualsiasi città in cui il potere segue le sue vie, calpestando chiunque si trovi sulla sua strada. E il suo sindaco, narcotrafficante, imbroglione, populista, falso, tanto arrogante con le mani sul collo quanto inetto al poligono di tiro, potrebbe essere chiunque detiene il potere e dal suo stesso potere si fa sottomettere. Quello di Asura: City of Madness è un mondo di pugni sulla faccia, di cicatrici, di sangue fatto versare e sputato, anche sui piatti, anche sulle cerimonie funebri. È un mondo torbido come quei giochi disumani e mortiferi che mette in scena, è un manuale di regia cinematografica, è un racconto soffocante e pregno di significati politici. Un microcosmo che dimostra ancora una volta come il cinema coreano, che si vogliano considerare o meno esauriti i fasti di metà anni Duemila, gode ancora di ottima salute.
Marco Romagna