AS BOAS MANEIRAS (2017), di Marco Dutra e Juliana Rojas
Cosa sono “le buone maniere”? As boas maneiras non evidenzia una risposta, pone solo un titolo dal quale possono scaturire riflessioni – non esistenziali o interne per lo spettatore, ma semplicemente legate a un conflitto di genere cinematografico. Cosa sono la favola, l’orrore e l’amore, nel cinema? Probabilmente registi come Lynch, con il quale i generi horror e noir sono costretti a confrontarsi da anni, hanno già provato a rispondere a questa domanda, e Twin Peaks: The Return ne è un esempio contemporaneo destinato già a diventare simulacro assoluto, capace di riscrivere le regole con simbolismi in continua innovazione, tra orrori sfocati e nucleari, anti-eroi noir che si svelano come sempre meno eticamente compiuti e storie d’amore cadaveriche, stantìe, velleitarie, e nel contempo densissime. Forse, nel panorama del cinema di genere contemporaneo, la cosa migliore è proprio quella di mettere in discussione gli archetipi, o di esporli con citazionismo ridanciano come fa qui in Italia il Federico Sfascia di I Rec U (2012): le vie di mezzo o gli esercizi di stile fini a se stessi possono lasciare il tempo che trovano o addirittura irritare, e sembra diventare sempre più difficile il compiere un discorso vero e proprio sull’idea, sul cinema, sulla struttura filmica dell’orrore. È sine dubio un problema, insomma, fare un cinema di questo tipo in un’epoca che subisce in maniera così radicale la crisi della digitalizzazione dei mezzi. È qui che il film di Marco Dutra e Juliana Rojas diviene parzialmente prorompente, dimostrando una specie di via di mezzo lontanissima dalla perfezione ma nel contempo ideale nel descrivere i limiti del genere. Il film, ambientato a San Paolo in Brasile, racconta il rapporto tra la domestica di colore Clara (Isabél Zuaa) e la più ricca Ana (interpretata dalla bellissima pop-star e attrice di soap opera Marjorie Estiano, già vista a Locarno nel 2015 nel capolavoro Garoto di Julio Bressane, appartenente alla «Tela Brilhadora») che la assume per fare dei lavori in casa durante la sua faticosa gravidanza. È evidente sin dai fiabeschi titoli di testa che probabilmente molto di quello che appare nelle immagini del film è destinato a rivelarsi profondamente differente rispetto alle apparenze. E, in effetti, As boas maneiras comincia con un intelligente senso di spaesamento, porgendo in continuazione agli spettatori indizi ma cercando in continuazione di alienarlo e di depistarlo, senza mettere in primo piano un genere o uno scopo, un messaggio, un’esplicitazione del linguaggio. Più o meno come La region salvaje (2016) di Amat Escalante, il film riesce a intrigare e a intrattenere nel momento in cui non c’è un’esplicitazione di cosa dovrebbe intrigare o intrattenere: è come se ci fosse un mistero all’interno del non-detto, del non-rivelato e del non-rivelabile, e ciò porta in avanti la narrazione in maniera curiosa e scomposta, riuscendo a fermarsi su svariati dettagli, siano essi significativi o assolutamente inutili, con grazia e raffinatezza.
Usando come MacGuffin una foto, un biglietto da visita, una camera di prigionia, un frigorifero e un carillon, Dutra e la Rojas trasformano questo spaesamento in una storia d’amore saffico che non è reso con il didascalismo sociologico in cui spesso scade il cinema quando affronta l’omosessualità, ed è un pregio che ha pochi altri paragoni, in effetti, all’interno della complessa e stratificata storia del cinema (tornando a Lynch viene in mente sicuramente lo straziante innamoramento illusorio di Mulholland Drive, 2001) – l’amore, il sesso, l’intimità sono colmi di tenerezza sincera e di sensibilità femminile, priva di pornografia. Subentra, poi, con sottigliezza sottocutanea, un aspetto fondamentale: la penetrazione dell’orrore all’interno del meccanismo, l’inaspettato che buca lo schermo, l’idilliaco romanticismo interrotto da una corruzione inspiegabile. E, probabilmente, non va trovata una giustificazione se non nella semplicità della figura tradizionale del ‘boogeyman’, dell’uomo nero: è semplicemente il Male, che appare e sconvolge la linearità. La macchina da presa però continua con la medesima fluidità e la medesima cura fotografica, che alterna momenti brillanti a momenti piatti in completo equilibrio – o, almeno, questo succede finché il film non si spezza in due. Un violento e spaventoso colpo di scena, reso con effetti speciali artigianali di grande efficacia grafica rispetto a certi stilemi computerizzati che sempre di più stanno prendendo piede nel cinema di genere contemporaneo, sfuma in un numero quasi ‘musical’ intenso, il quale poi sfocia in una seconda parte del film in cui il tono sembra completamente mutare. Non è più una storia d’amore contaminata dall’orrore, diventa semmai un orrore contaminato dal dramma; gli effetti artigianali sono sostituiti da licantropi in CGI il cui impatto emotivo è radicalmente mutato proprio nel momento della manifestazione all’infuori dell’oscurità; la trasformazione stile Un lupo mannaro americano a Londra (1981) di John Landis diventa una metamorfosi plastica, e tutta l’operazione, tra osmosi tra noir violento e favola dei fratelli Grimm, diventa un’evoluzione/involuzione metastatica dell’avventura spielberghiana, senza simbolismi e senza messaggi a differenza di Okja (2017) di Bong Joon-ho, che a livello di ispirazioni e imperfezioni ha molte cose in comune con As boas maneiras. Rimane, forse, solo e soltanto un recupero della favola e dei ritmi della favola.
Il cinema horror brasiliano ha una lunga tradizione, principalmente legata ai film di José Mojica Marins con protagonista il personaggio fittizio da lui stesso creato e interpretato, Zé do Caixão – film dei quali A mezzanotte possiederò la tua anima (1964) è il capostipite. Ma il cinema brasiliano, come ci può dimostrare anche solo il fatto dell’esistenza di due diverse pseudo-‘nouvelle vague’s come il Cinema Nôvo (Glauber Rocha, Ruy Guerra…) e il successivo e più dis-limitato Cinema Marginal (il succitato Bressane, Rogério Sganzerla…). Ma, a partire dal suo personale Atalante, il Limite (1931) di Mário Peixoto, rimane un ambiente cinematografico strano, mutevole, in cui ogni pezzo di cinema può essere una riscoperta di sé – e lo può dimostrare parzialmente anche il fatto che esista Barão Olavo, o Horrìvel (1970) di Bressane, tributo anticonvenzionale e scomposto agli horror classici che, coincidentalmente, contiene una storia d’amore lesbo con le stesse caratteristiche anti-didascaliche di As boas maneiras, anche se con un’ovvia raffinatezza sperimentale superiore. Il premio della giuria a Locarno per il film di Dutra e della Rojas è un premio strano, ma normale all’interno di un concorso così variegato e colmo di sorprese e complessità. E anche questo film, che pur si conclude con una nota dolente e con una seconda parte in cui le grande idee stilistiche sono presto sostituite da prolissità e superficialità, è gremito di stranezze e difficoltà, di passi falsi e grandi idee. Una cosa sola è riscontrabile e probabile: che questo mettere in evidenza le problematiche del cinema di genere può essere utile per ampliare i nostri sguardi in vista di questo conflitto, e ciò conferma come il Locarno Festival riesce sempre a spiegare le tendenze del cinema d’autore (e non) odierno anche attraverso i film più problematici che proietta. Tutto è interessante, tutto è stratificato, tutto è appartenente a un organismo coerente che si può trasformare. Questa è Locarno, questo è il cinema – nel bene, nel male, e nelle vie di mezzo.
Nicola Settis