ARRIVAL (2016), di Denis Villeneuve
Sono profondamente di parte su Denis Villeneuve, autore canadese che, dopo aver sfornato qualche film di culto che gli aveva procurato una nutrita schiera di fan e un’altrettanto nutrita compagine di scettici, con gli ultimi due lavori realizzati in evidenti condizioni da studio-system ma accolti dai grandi Festival (Sicario a Cannes e l’ultimo, Arrival, a Venezia), ha attirato su di sé odi feroci e accuse di sterilità, di poca originalità, quasi di impostura. La sua incursione nella fantascienza è, appunto, il convincente Arrival, un film stratificato, multiforme sia narrativamente che visivamente, pronto a usare il genere per riflettere sulla necessità di parlarsi, capirsi, decifrarsi come una reciproca Stele di Rosetta, ponte fra passato e futuro.
Arrival è la storia di un’invasione aliena sulla Terra: pacifica, sembrerebbe, ma inquietante, e ovviamente la strategia del terrore immediatamente impostata dai capi di stato trasforma questa “visita” in un’emergenza: atterrano, in dodici punti del pianeta apparentemente senza connessione logica, dodici astronavi, enormi monoliti neri (dall’elegantissimo design, a dirla tutta) alti 450 metri, abitati, poi si vedrà, da esseri eptapodi, il cui vero aspetto si riuscirà a distinguere solo più avanti. Ritorna, quindi, la figura mostruosa già indagata da Villeneuve in Enemy (come si ricorderà, erano i ragni nell’adattamento da Saramago), ma con una differenza sostanziale: lì c’era una minaccia reale, psicologica, prodotta in un certo senso dalla mente del protagonista; qui c’è, invece, la necessità della comunicazione, e la caratteristica più stupefacente di queste creature è la loro capacità di comunicare attraverso un linguaggio complesso, visivo, scritto in maniera circolare, come un anello di fumo su un vetro. Un linguaggio sulle prime talmente incomprensibile che l’esercito americano ritiene necessario l’intervento di Louise Banks (interpretata da un’ottima Amy Adams, che si presenta in concorso con una doppia chance grazie a questo film e anche a Tom Ford), prezzolata linguista e traduttrice, donna di grande coraggio ma ferita profondamente nello spirito – parrebbe, nei giochi narrativi – dalla perdita della figlia piccola a causa di una grave malattia. La affiancano un matematico, Ian Donnelly (Jeremy Renner), che si rivelerà cruciale nell’interpretazione dell’alfabeto alieno. E il solo fatto di basare interamente sul linguaggio e sulla comunicazione l’impalcatura di un film di fantascienza basterebbe per fare di Arrival una piccola gemma nella storia recente del genere.
Come dicevamo all’inizio, per portare avanti questo audace proposito Villeneuve risolve con un’inventiva visiva mai sperimentata a livelli così poetici: l’interno dell’astronave è memorabile, metafora del cinema, per la portata e la luminosità dello schermo che divide “l’altro” da “noi”, ma anche dell’utero e della fecondazione. Il finale, in cui il breakdown comunicativo, e quindi diplomatico, è una minaccia reale, sembra, oggettivamente, risolvere tutto in maniera un po’ sbrigativa, cadendo, forse, nello stesso errore (che lì però trovammo più grossolano) di Interstellar, in cui Christopher Nolan, dopo aver apparecchiato una tessitura teorica avvincente che davvero ci instillava la voglia di saperne di più di meccanica quantistica, commette la leggerezza di annacquare tutto di sentimentalismo, e l’incantesimo svanisce. Qui, comunque, il peccato sembra più veniale, perché è nel convulso finale che l’ottima sceneggiatura di Eric Heisserer fa tornare i conti, e quindi – perdonateci la vaghezza, ma ne andrebbe del vostro godimento nel film, quando uscirà – tutto ritorna al suo posto, ma non nel modo in cui si credeva inizialmente. Sapido intrattenimento non privo di spunti di riflessione, l’arrival del film nelle sale italiane era inizialmente previsto per il 24 novembre, poi slittato al 19 gennaio 2017. Per (ri)scoprirsi, attraverso un linguaggio alieno fatto di anelli di fumo.
Elio Di Pace