«Potremmo essere la generazione dell’armageddon», tuonava Ronald Reagan dallo schermo della televisione nel 1980 sua prima campagna presidenziale contro la ricandidatura dell’uscente Jimmy Carter. Erano gli anni della Seconda Guerra Fredda, un momento di instabilità e di spinte interventiste in cui il riacutizzarsi delle tensioni con l’Unione Sovietica di Brežnev faceva sembrare la minaccia nucleare un’ipotesi più che mai plausibile e concreta, e nessuno poteva ancora immaginare che di lì a qualche anno Gorbaciov e lo stesso Reagan avrebbero capito l’antifona, trovando finalmente gli accordi per chiudere (almeno per un po’) la partita. Non sono però i rapporti fra il Patto Atlantico e quello di Varsavia il punto del pur politicissimo Armageddon Time, nuovo lavoro con cui James Gray ritorna per la quinta volta in concorso a Cannes nove anni e al terzo film (The lost city of Z fu chiusura del Festival di New York per poi giungere in Europa fuori concorso alla Berlinale, mentre Ad Astra ebbe la prima a Venezia) dopo il 2013 The Immigrant. Il punto è semmai quel tempo, quegli anni o meglio quella manciata di mesi che avrebbero condotto l’ex attore alla Casa Bianca, riletti oggi come primo passo senza il quale il trumpismo non sarebbe mai stato possibile. Non è certo casuale in tal senso, anzi è per molti versi proprio la chiave di volta del film, l’apparizione improvvisa proprio di Fred e Maryanne Trump genitori di Donald come “benefattori” della scuola privata che verrà imposta al giovane protagonista Paul, proiezione dello stesso James Gray che proprio come lui sta crescendo e che proprio come lui, in quel periodo e in quei luoghi, sta maturando la propria definitiva disillusione, come in una sorta di armageddon personale dell’infanzia e dell’innocenza che affonda le radici in quel Queens di una media borghesia newyorchese magari figlia di immigrati ebrei e almeno a parole convintamente progressista, eppure al contempo razzista e discriminatoria senza nemmeno rendersene conto verso le altre minoranze, patriarcale e violenta nei suoi scatti d’ira incontrollati, tanto conformista e mediocre nell’ambizione di un successo ‘americano’ da finire per tarpare le ali al talento, tanto perfettamente integrata nelle ingiustizie del mondo bianco, angolassone e (per il resto) protestante – con tanto di cognome cambiato da Rabinowitz a Graff, quasi a nascondere quell’origine ebraica europea e scegliere definitivamente l’America anche per quello che è(ra) – da rivelarsi in definitiva una parte del problema. Di principi opposti, certo, disgustata e preoccupata di fronte all’elezione di Reagan, eppure forse non troppo diversa da Trump senior nel cui antisemitismo sentire riecheggiare i racconti e gli avvertimenti del nonno, la drammatica fuga della bisnonna (edulcorata nei racconti al nipotino per poi restituirle i dettagli più cruenti solo fuori dalla porta della cameretta) prima dall’Ucraina e poi dall’Inghilterra per correre più veloce delle persecuzioni, ma soprattutto la necessità di ricordarsi sempre da dove si viene come unico modo per non perdersi, per non dissipare la tradizione, perché ogni prospettiva di realizzazione non finisca per rivelarsi la vittoria di Pirro di chi ha accettato le oppressioni sistemiche fino a esserne parte del meccanismo. Una consapevolezza che la generazione successiva, forse viziata dai propri privilegi, o forse semplicemente meno saggia nell’imperativo di non guardarsi mai indietro, ha oramai smarrito per strada, ma che l’ormai terminale avo sente il dovere di instillare nuovamente almeno nel nipote, perché le nuove generazioni non ripetano gli errori di quelle precedenti, perché non rendano vano il loro avercela fatta. Perché quel razzo (giocattolo) possa finalmente partire e librarsi nel cielo, per poi ri-atterrare dolcemente col suo paracadute. È per questo che il crepuscolare Aaron di Anthony Hopkins, che vede nel giovanissimo Paul e nell’esuberanza incorrotta del suo continuo giocare quella purezza ormai assente nei suoi genitori e nel fratello, è l’unico in famiglia senza puzza sotto il naso, è l’unico realmente rispettoso di ogni persona, di ogni cultura e di ogni classe sociale, è quello con cui divertirsi una serata al cinema a vedere Private Benjamin (in italiano Soldato Giulia agli ordini) di Howard Zieff o a giocare scambiandosi gli spaghetti «vermi insanguinati» nel piatto (salvo poi magari ordinare al cinese, perché a casa di buono non c’è nulla), e non a caso è anche l’unico che sostiene il nipote nella sua attitudine per il disegno, che crede in lui e nella sua vena artistica, che lo capisce fino in fondo. Fino a quando ovviamente non sarà anche il primo e unico a morire, fra il crollo emotivo di una madre capace di pensare solo a se stessa (e alla sua presidenza dell’Associazione Genitori e Insegnanti, minata dallo spirito ribelle del figlio) e la dolcezza mista cinghiate paterna, in una singola e improvvisa esplosione d’ira e di violenza domestica per punire non tanto l’ingenuità del figlio reo di aver fumato una canna senza nemmeno sapere che cosa fosse, ma piuttosto il colore della pelle del Lucignolo che gliel’aveva messa in bocca.
Perché, con il suo titolo a metà strada fra la propaganda reaganiana e l’“Armagideon time” di Willie Williams coverizzata dai Clash, Armageddon Time è prima di tutto una storia di amicizia. La storia di due bambini che si trovano a scuola quando Paul ha undici anni e il ripetente Johnny appena uno di più, unico nero in una classe totalmente bianca e povero al punto da non avere nemmeno il telefono a casa, ma discolo a sufficienza per creare un sodalizio ribelle con cui combattere contro i soprusi e la mediocrità dell’insegnante. Con la differenza che quando a fare casino (o a disegnare caricature con cui far ridere tutta la classe) è il caucasico Paul finisce alla lavagna o al massimo al banchetto punitivo vicino alla cattedra, e quando è invece l’afroamericano Johnny scatta l’«animale» del professore, l’insulto razziale, la punizione più esemplare. L’ingiustizia contro cui si cementa l’amicizia di chi si difende a vicenda, di chi si ospita in segreto nel capanno nei momenti di bisogno, di chi sogna insieme di fuggire in Florida per entrare nella NASA o nella Disney al punto di progettare il furto di uno dei primi computer per rivenderlo e ottenere sufficiente denaro per partire, di chi sente per un momento la tentazione di scaricare la colpa e uscirne pulito ma invece decide di dire la verità, e di chi alla fine si sacrifica prendendosi tutte le colpe per salvare almeno l’altro, l’amico, costringendolo però a convivere un’intera vita con un doppio senso di colpa, per aver avuto l’idea illegale e per avere poi sfruttato a proprio favore le iniquità sociali e la disuguaglianza, per essersi salvato solo in quanto bianco mentre per il nero non c’è mai stata possibilità di uscirne, ma solo la scelta se trascinare o meno l’altro nel baratro del riformatorio. Quella stessa disuguaglianza che già, per fuggire alle minoranze di altri quartieri, aveva portato Paul nel lusso, nelle rigorose tradizioni e nelle donazioni trumpiane della privatissima Richmond Hill High School; quella stessa disuguaglianza per la quale Johnny, a meno che non ci si intrufoli nottetempo, la Richmond Hill può al massimo guardarla attraverso il cancello. In un coming of age d’ispirazione autobiografica che mette in scena il passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, Armageddon time ripercorre così la fine delle illusioni e il definitivo mortificarsi del sogno americano con un nichilismo che non risparmia né la scuola né la famiglia, né la classe dirigente né le dinamiche della società, né le ingiustizie conservatrici né le contraddizioni del progressismo. Il risultato è un affresco che ragiona sul classismo e sui compromessi morali dell’assimilazione, sulla questione razziale e sul sospetto fra minoranze, sulla fragilità dei rapporti umani e sulle più radicate fratture sociali, ma anche sull’amicizia e sul senso di colpa, sull’identità e sul talento artistico, sugli scarti generazionali e sulle fantasie di successo su cui si fondano (e fondano ogni compromesso) gli Stati Uniti d’America. Un’operazione che, nel suo Queens del 1980, rivela diversi alleli in comune con quelle (di parecchio più riuscite, va detto, mentre questo Armageddon time potrebbe deludere aspettative troppo alte con il suo essere “solo” bello, in realtà a distanza di sicurezza anche dalle vette dello stesso Gray) di recente compiute da Paul Thomas Anderson con la San Fernando Valley e il 1973 cinematografico di Licorice Pizza e da Richard Linklater con la Houston e il 1969 sognante di Apollo 10 e mezzo (ma volendo potrebbe non essere così peregrino cercare un qualche apparentamento anche con il Tarantino di Once upon a time… in Hollywood). Tutte minuziose ricostruzioni di luoghi, anni e contesti differenti, per film che in diverso modo e con diversa poetica tornano all’infanzia dei registi, ai loro sogni, ai loro rimpianti, alle loro disillusioni, alla loro malinconia per ciò che non può più essere. Gray, fra questi giganti del cinema, è quello che ha scelto la strada più direttamente politica e pessimista, quella che più di petto vuole affrontare le contraddizioni e le ipocrisie del Paese, quella che costringe al più dilaniante dilemma morale, quella che per raccontare come gli esseri umani, specialmente se appartenenti a minoranze, nient’altro siano che pedine funzionali, rende persino il co-protagonista afroamericano una pedina funzionale alla narrazione e alla disincantata e dolorosa maturazione di Paul. Il resto è semplicemente il cinema di James Gray, che dallo Spazio più profondo in cui cercare se stessi torna a una microstoria di immigrazione, questa volta di seconda/terza generazione, e a un appartamento, due scuole e un’automobile da cui scontrarsi con il mondo, salvo poi ritrovarsi ad averne accettato i compromessi più iniqui e disumani. Un film piccolo e dalle mille peripezie produttive (prima lo slittamento per la pandemia e poi la diaspora del cast originario, con la sola Anne Hathaway a rimanere nel suo ruolo mentre Anthony Hopkins, Jeremy Strong e Jessica Chastain venivano chiamati per sostituire all’ultimo rispettivamente Robert De Niro, Oscar Isaac e Cate Blanchett), eppure (fin troppo) stratificato, doloroso, feroce, con cui entrare nel cuore (di pietra) dell’America e nelle incoerenze delle minoranze assimilate, nella coesistenza della memoria storica da vittime e del ruolo di carnefici. I penultimi contro gli ultimi, in attesa della prossima integrazione e del prossimo “diverso” da guardare di sbieco. Un film che alle astrazioni di Kandinskij ammirate al Guggenheim Museum risponde con la piena concretezza di una storia comune eppure speciale, autobiografica eppure universale, a tratti dolce eppure amarissima. Non resta che ritrovarsi senza più nulla in cameretta, non più innocenti, Reagan appena eletto fra le lacrime (di coccodrillo) della famiglia di fronte allo schermo, e il nonno come un fantasma a cui ancora chiedere consigli di vita immaginandolo ancora lì, al proprio fianco, seduto sul letto. L’ennesima utopia impossibile, l’ennesima insostenibile malinconia. L’ennesima prigione. Solo che da questa non si può in alcun modo evadere.
Marco Romagna