ARGILEAK (2022), di Patxi Burillo Nuin

Importa solo relativamente che cosa si stia guardando, e ancora meno se ciò a cui si sta assistendo sia effettivamente vero o falso, reale o immaginato, mistico o proiettato su uno schermo bianco. Quello che conta è spalancare gli occhi, concentrarsi e credere fino in fondo a ciò che si vede, alle “apparizioni di luce”, traduzione letterale del titolo basco Argileak con cui il classe ’90 Patxi Burillo Nuin ha stregato la giuria giovani della 59ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro aggiudicandosi il premio da loro attribuito, che affiorano dal buio. Proprio come vedevano e credevano i pellegrini pronti ad accorrere a frotte nella cittadina basca di Ezkio (o Ezquioga, se si preferisce la variante spagnola) dopo le presunte apparizioni divine degli anni Trenta del Novecento, guardati nel loro atto di guardare dalle vecchie lastre fotografiche del tempo. Proprio come nel medesimo luogo ancora oggi vedono e credono i bambini seduti in una notte d’estate in un cinema all’aperto, nel cui fondo degli occhi ritrovare allo specchio la (propria) passione e la scintilla scatenante di ogni cinefilia, il motivo per cui ancora esistere e resistere nel buio di una sala, l’essenza stessa dell’immergersi fra gli immaginari e le messe in scena. C’è tutta la sospensione dell’incredulità, nei bagliori di quelle giovanissime e innocenti pupille. C’è tutta la magia della narrazione per immagini, c’è tutto il più puro senso di gioiosa meraviglia. C’è una vera e propria forma di amore e di sincera partecipazione, pronta a emergere in una concretezza quasi tattile dai controcampi dello schermo, dipinta su quei piccoli volti illuminati solo dal riflesso del sogno collettivo che stanno guardando, e quindi vivendo, insieme. Forse la più tenera e candida fra le possibili lettere d’amore alla settima arte, semplicemente colta nei suoi effetti su chi guarda, brama, fantastica e trepida commosso di fronte alle luci colorate di ventiquattro fotogrammi al secondo. Grandi e piccole Argileak da qualche parte fra l’assistere e l’immaginare, fra l’osservare e il ricostruire, fra il chiaramente percepito e il contorno appena abbozzato, fra la realtà e il sogno. Ma anche fra la concretezza e la convinzione, fra il cosciente e il desiderato, e magari pure fra la volontà di vedere e il credere di avere visto. Non importa l’eventuale (dis)illusione. Come si diceva, quello che conta è semplicemente non smettere mai di guardare ciò che si para di fronte agli occhi, perché l’atto stesso di guardare è intrinsecamente un atto di fede nell’immagine, nella fantasia, nel desiderio, nella viva emozione. Nel cinema, in cui è necessario e doveroso credere, per lo meno per il tempo della proiezione.

Una conclusione con cui Patxi Burillo Nuin ha di fatto anticipato di qualche mese (la prima assoluta di Argileak è di oltre un anno fa, al Documentamadrid di maggio-giugno 2022) quelle che sono state nel frattempo, a inizio 2023, le riflessioni portate sullo schermo in tutt’altra forma da M. Night Shyamalan con il suo magnifico e teoricissimo Knock at the Cabin, ma al giovane filmmaker nativo di Pamplona non servono né trama, né minutaggio, né attori, né metafore, né morti, né catastrofi naturali, né incursioni nel genere, né Cavalieri dell’Apocalisse, per scandagliare e mostrare la fede nel cinema. Basta la poesia. Basta un luogo in cui viaggiare nel tempo, osservando chi un tempo ha osservato e chi ancora oggi osserva rapito. Basta un bosco immerso nel buio da fendere con le torce, con gli sguardi o magari con la lampada di un proiettore, fino a ricominciare, per lo meno in silhouette, a riuscire a distinguere le forme degli alberi e della Natura. Basta uno schermo fuori campo su cui far rivivere e brillare un qualsiasi film, e basta una macchina da presa pronta a catturare sui volti ammaliati dei piccoli spettatori il candore irrefrenabile delle emozioni, la dolcezza inusitata dell’inspiegabile incantesimo che è proprio di ogni visione personale e soprattutto collettiva. Le stesse suggestioni ammaliate e la stessa idillica tenerezza cinefila che già nel ’73 furono quelle della piccola Ana per la prima volta di fronte a Frankenstein nel miracoloso e poeticissimo Lo spirito dell’Alveare di Victor Erice, evidentemente fra le principali ispirazioni di Patxi Burillo Nuin per immaginare il quarto d’ora di poco abbondante della sua breve, atipica e personalissima incursione nel film di fantasmi. Un cortometraggio innestato nel buio con cui interrogarsi sul ruolo della luce, sul cinema e sul senso più intimo e profondo, perfino metafisico, del(l’intrav)vedere e del guardare. Come se le immagini, della Fede e del cinema, ma anche le (poche) parole che la voce fuori campo declama e sottotitola su schermo nero, dovessero in qualche modo solo essere liberate dall’oscurità, illuminate da un bagliore magari a volte flebile come un riverbero su una superficie riflettente, attraverso il quale ricominciare a distinguerle, crederci, viverle con fiducia e trasporto. Sta tutto negli occhi. Quelli del passato, ormai quasi invisibili nella grana e nei bianchi e neri ipercontrastati delle antiche fotografie, intenti a cercare quella stessa emozione vissuta dai bambini baschi testimoni della Madonna, e quelli invece brillanti di riflessi ma soprattutto di luce propria dei bambini del presente, di fronte al cinema mobile innestato fra gli alberi. Occhi che poi a ben vedere nient’altro sono che quelli di ogni spettatore, di ogni entusiasmo, di chiunque almeno una volta nella sua vita si sia sinceramente appassionato ed emozionato di fronte a un film. Gli stessi occhi che cercano di distinguere le forme del paesaggio nei rari e fiochi bagliori di luce, e gli stessi occhi che, nel riconoscersi in altri occhi sullo schermo, non riescono a fare a meno di inseguire ogni più flebile lama di chiarore nel buio per venarsi ancora una volta di sempre identica e sempre nuova commozione. L’emozionante semplicità di un film piccolo e bellissimo, con cui riscoprire negli sguardi affascinati che cosa vuol dire il cinema, la ragione esistenziale e più incontaminata per cui continuare a consacrargli un minuto, un’ora, un anno, un’intera esistenza. Luce dopo luce, fotogramma dopo fotogramma, immagine dopo immagine, apparizione dopo apparizione. Visione dopo visione. Piccolo miracolo dopo piccolo miracolo.

Marco Romagna