Dal tema fortemente sociale e politico, che avrebbe avuto le potenzialità per annichilire e devastare lo spettatore, Argentina, 1985 si rivela invece una commedia dai toni edificanti e dall’umorismo raffinato, che cerca proprio nell’intrattenimento la chiave del suo successo col grande pubblico. Privo di forzati intellettualismi e di capricci formali, la pellicola ricorda i toni e la scrittura delle migliori di Frank Capra, dove Davide e Golia si scontrano sullo sfondo di una provincia insonnolita e di personaggi “macchietta” perfettamente congegnati quanto sapientemente scritti. Ed è proprio nella scrittura, co-firmata con il grande Mariano Llinas già autore (non solo) de La Flor, che risiede la forza del nuovo lavoro di Santiago Mitre, già reso famoso da Paulina (2015) e Il Presidente (2017) e ora in concorso alla 79ma Mostra del Cinema di Venezia. Con un film dal ritmo incalzante e dai dialoghi serrati, dalle battute sardoniche e dalla ricostruzione in costume precisa e suggestiva, che si rivela nello scorrere delle sequenze ben costruito e consapevole, non necessariamente pellicola autoriale ma capace di tocchi d’autore senza uscire dal solco del mainstream di produzione Amazon, capace di stemperare le spigolosità del tema trattato – gli orrori del totalitarismo – nell’umanità dei suoi protagonisti tra i quali spicca il procuratore Julio Strassera, futuro eroe nazionale interpretato da un Ricardo Darín calibrato e maestoso.
Siamo, come titolo suggerisce, nell’Argentina del 1985, agli albori della democrazia di Alfonsin, quella che si sarebbe rivelata una nuova era per un Paese segnato da una storia di violenza e prevaricazione ingiustificate. Il pretesto narrativo è quello di un processo di portata storica e clamore internazionale, quello di Julio Strassera e del suo assistente Moreno Ocampo allo stesso regime militare responsabile di atroci violenze, torture, omicidi e sequestri, effettuati sotto il baluardo della giustizia arbitraria e tirannica della dittatura militare di Jorge Rafael Videla. Nel film, privato e pubblico si intrecciano costantemente, si contaminano e si stemperano, si accendono e si enfatizzano in un gioco cromatico di diverbi politici e schermaglie verbali, dove l’umano e il mostruoso si danno il cambio sulla scena. Al centro però non c’è la banalità del male, ma gli sforzi del piccolo contro la crudeltà del processo storico, apparentemente inestirpabile ma coraggiosamente denunciata. Come nuovi Atticus Finch, l’avvocato Strassera e i suoi giovanissimi collaboratori si ergono a improvvisati paladini di una nuova forma di giustizia, portavoce di una maggioranza a lungo repressa, simbolo di quella nuova democrazia tuttora in vigore in Argentina. Ed è in questo che risiede la forza della pellicola di Mitre, che in mezzo a tante sempre più cupe, sordide e cruente, incentrate su una violenza esacerbata e su temi volutamente scabrosi, ci invita a sperare, a credere nella possibilità di un futuro migliore, di una banalità del bene che, per quanto sopita, attende solo un’occasione per fare la storia e cambiare il destino di una nazione.
È il ritorno sullo schermo dello storytelling, del film tradizionale ed edificante al tempo stesso, una combinazione vincente ma non scontata nel panorama contemporaneo dove tutto è rottura, insubordinazione dissacrante a regole ataviche. Argentina, 1985 ci insegna che tornare alla storia come matrice primaria, al personaggio come motore narrativo, e all’umano in tutte le sue sfaccettature, invece di abbandonarsi a una sterile gratificazione pseudo intellettuale come molte pellicole moderne, è ancora una mossa vincente. In un panorama arido, dove il racconto stesso sembra ripetersi continuamente in infinite variazioni su uno stesso tema coniugato in (pseudo)sperimentazioni troppo spesso fini a sé stesse, Argentina dimostra che le grandi storie vivono ancora, in attesa di essere riscoperte e riportate in vita da una scrittura potente e raffinata. Perché è allontanandosi da essa che il cinema cessa di coinvolgere, di stupire e di ammaliare, facendosi mero esercizio di stile. Il film di Mitre si mantiene invece su toni leggeri, “depurati” da ogni voluto abbruttimento, da ogni facile indulgenza ed esaltazione di violenza, rivelandosi capace di raccontare qualcosa di così forte e ripugnante attraverso soltanto il talento dei propri attori. La pellicola non si abbandona mai a un facile patetismo, che pure il soggetto permetterebbe, ma lascia la violenza cruda e “sporca”: l’abbruttimento umano di cui si fa denuncia subordinato al personaggio e alla sua storia, rimettendo al centro l’uomo. Dramma quasi corale, la pellicola punta moltissimo su un cast estremamente giovane e variegato che si avvicenda con maestria in una narrazione dove testimonianza, filmato e racconto processuale si alternano in un crescendo di puro intrattenimento drammatico.
Tuttavia, la mancanza di un punto di vista centrale, di un focus narrativo, lo spostarsi continuamente da una prospettiva all’altra, da un personaggio all’altro, da una testimonianza all’altra, dal privato al pubblico, indebolisce e scardina una narrazione altrimenti efficace e salda. Sotto le scartoffie di un processo epocale, si perde quello che è il motore narrativo centrale: il conflitto interiore di un uomo qualunque chiamato dal popolo a svolgere un compito sporco, pericoloso, indesiderato. Quello di affrontare, armato soltanto della propria forza morale, un regime fino ad allora considerato intoccabile. Una particolare debolezza, forse, sta proprio nella mancanza di conflitto, di tensione, di una tragedia che viene costantemente annunciata senza mai compiersi, di un cedimento, persino, da parte dello stesso protagonista, a rendere la quasi vittoria finale, il farsi di un eroe, ancora più epici e commoventi. D’altra parte una mancanza si rende presenza ingombrante durante tutto il film: quella di un vero e proprio antagonista, di un volto su cui lo spettatore possa proiettare tutto il suo disgusto. I militari condannati, infatti, così come il loro avvocato, sono ridotti a una serie di semplici nomi e volti grotteschi, tra loro confondibili, e di battute e sketch da manuale, semi-macchiette incapaci di infondere davvero alcun rispetto o timore. Eppure tali ingenuità sembrano volute, frutto di arguta riflessione, in risposta a un pubblico sempre più affamato di storie capaci di ispirare, di eroi, e di chi sa come raccontarli. É così che Mitre rende non solo accessibile ma anche piacevole, oggetto di puro godimento intellettuale, un messaggio storico che avrebbe potuto risultare indigesto, difficile persino da veicolare data la delicatezza dell’argomento trattato, quello di un male atavico, destinato a ripetersi, a mietere vittime con una violenza contro cui l’uomo sembra incapace di vincere, ma a cui decide comunque di opporsi, ormai piegato e prostrato da una Storia cieca e arbitraria, in un finale grido collettivo, di rabbia, dolore e lotta: «Nunca Mas» (Mai Più)!
Anna Chiari