«He had summed up–he had judged. “The horror!”»
Joseph Conrad, Heart of Darkness
La giungla, il rumore dei motori che si fa sempre più vicino, la coltre di fumo tossico dell’agente arancio che entra quasi sibillina ad anticipare la tempesta di fuoco. Il corpo dell’elicottero attraversa il fotogramma quasi come uno scheletro, quasi come uno spettro di morte, mentre quel cupo re minore arpeggiato dai Doors rimane sospeso, in attesa, «This is the end, beautiful friend». La voce calda e tormentata di Jim Morrison esplode, quasi come un’epifania di dolore, proprio nel momento in cui il napalm trasforma gli alberi in fiamme e cenere, proprio nel momento in cui il più atroce ricordo è già la necessità del futuro, proprio nel momento in cui le dissolvenze incrociate di Francis Ford Coppola mostrano il volto sottosopra di Benjamin Willard/Martin Sheen, il suo sguardo inebetito verso le pale di quel ventilatore da soffitto così simili a quelle degli elicotteri, il suo quotidiano indebolirsi a Saigon fra shock, alcool e lo stato confusionale di chi forse non potrà mai tornare alla vita normale, febbricitante nella spasmodica attesa della sua prossima missione. Una missione dopo la quale non ne avrebbe mai più volute altre, «This is the end, my only friend the end». Una fine – dell’umanità, dei diritti, della coscienza, della lucidità, dell’etica – che nient’altro è che l’inizio. Del viaggio a risalire il fiume (interiore) oltre il Vietnam fino alla neutrale Cambogia, del nuovo incarico militare, del girone infernale, del dolore, delle nevrosi, del paganesimo, delle contraddizioni della guerra, del delirio di onnipotenza, del nuovo valzer di delirio psicotico, frecce, lance, proiettili, bombe e morte. Dell’Apocalypse now che è «l’orrore», “apocalisse ora” di ieri, di oggi e per sempre. Un mito iconico e cinematografico che, sin dalla prima proiezione che gli valse la Palma d’Oro a Cannes nel 1979, dopo pochissimi metri di pellicola e una manciata di inquadrature era già diventato parte indelebile di ogni immaginario, con quell’incipit folgorante e stordente che da quarant’anni è simbolo stesso del conflitto in Vietnam e di ogni orrore bellico, «No safety or surprise, the end, I’ll never look into your eyes, again». Fino a quell’impercettibile ma storicizzato e leggendario «keep rolling» di Martin Sheen, realmente ubriaco sul set, a continuare sanguinante nella sua performance dopo essersi tagliato la mano contro lo specchio rotto.
Era la fine degli anni Sessanta quando Francis Ford Coppola con la sua Zoetrope, spinto dagli amici George Lucas e Steven Spielberg, decise di affidare a John Milius la prima stesura della sceneggiatura di un film sul Vietnam. Il conflitto era al tempo al suo culmine, e fu idea di Milius quella di adattare al contesto, rendendo la sceneggiatura una grande rilettura allegorica espansa, il Cuore di Tenebra di Joseph Conrad. Regista sarebbe dovuto inizialmente essere Lucas, con un budget di soli due milioni di dollari (alla fine saranno più di 30) e con le sequenze di battaglia fornite da una batteria di camere 16mm che sarebbero dovute andare a documentare direttamente il conflitto. Ma nel frattempo il tempo passava, la “dottrina Nixon” dimostrava via via la sua inefficacia andando ad aggravare la situazione etica e psicologica degli Stati Uniti e delle sue forze armate, e giunse quel fatidico 1975 in cui non fu più possibile evitare di ammettere la disfatta politica e militare statunitense in Sud Est Asiatico, non fu più possibile evitare di confessare le proprie colpe, non fu più possibile evitare di leccarsi le ferite. Coppola, ormai definitivamente deciso a produrre il film in collaborazione con la United Artists, propose di dirigerlo prima a Lucas e poi allo stesso Milius, ma entrambi erano ormai impegnati, rispettivamente, con Star Wars e con Un mercoledì da leoni, e declinarono le offerte spingendolo a decidere di fare da solo1. Si rimise al lavoro sulla prima stesura della sceneggiatura, nel frattempo passata ancora una volta per iniziativa di John Milius dal titolo originario The Psychedelic Soldier al più suggestivo Apocalypse now, per trasformarla in esperienza immersiva nella guerra, nelle derive dell’esaurimento nervoso e di un disturbo post traumatico da stress spinto al massimo sul labile confine fra bene e male, in una schietta e amarissima riflessione sull’invasività culturale degli Stati Uniti e sul quotidiano sentirsi carne da macello di ragazzi lasciati soli alla più completa deriva, costretti a fare del male a innocenti, costretti a perdere e a soffrire eterni sensi di colpa, costretti a morire o a non poter mai più vivere. In un viaggio nel trauma, nella violenza, nella morte, nell’orrore, nei ragazzi strappati alle proprie famiglie, in quelle cicatrici psicologiche che anche nei reduci che sarebbero riusciti a tornare a casa non si sarebbero mai più rimarginate, mentre lo Stato pur di non ammettere un proprio tragico errore di valutazione continuava a mandare ragazzi all’inferno e nel frattempo intesseva oscure trame segrete con cui lavarsi le mani dal sangue e coprire la faccia. E non era certo un caso, in questo suo affrontare anche il lungo termine del trauma, che la versione di Apocalypse now tornata dalla Croisette con il premio più ambito fosse, dopo una pre-produzione più che decennale, ancora provvisoria. Come forse si rivelerà provvisorio, a dispetto del nome e dei 40 anni esatti di distanza, anche questo nuovissimo Apocalypse now – Final Cut in 4K, terzo montaggio ufficiale del film presentato dall’autore di Detroit in Piazza Maggiore a Bologna al Cinema Ritrovato 2019 prima della nuova distribuzione. Perché, anche se questo si dovesse realmente rivelare l’ultimo rimetterci mano da parte di Coppola, non può che essere un film eternamente provvisorio Apocalypse now, riscritto giorno dopo giorno anche durante l’anno abbondante di riprese, minato da ogni tipo di problemi produttivi, di sforamenti nel budget, di capricci delle star, di clima caldo umido insostenibile, di tifoni a distruggere il set, di insofferenze dovute a crolli nervosi e abusi collettivi di droghe, di sabotaggi e ostracismi del governo filippino che al tempo di Marcos di certo non era felice dell’approccio smaccatamente antimilitarista del film, e persino dall’infarto che, a metà riprese, ha costretto Martin Sheen a un lungo ricovero e la troupe a un ampio uso di riprese di spalle della controfigura.
Nel suo risalire le tappe infernali del fiume bellico fino al disertore/Dio della guerra Kurtz da stanare nello spettrale villaggio di dannati a lui asserviti, Apocalypse now non può che essere un film che rimane appeso come una vita in battaglia, come l’istante di purissimo terrore di fronte a una tigre, come la frustrazione e i cedimenti psicologici di fronte all’ineluttabilità della catastrofe, come l’ordine segreto e impossibile da confermare di chi manda a uccidere premeditatamente un colonnello (impazzito, o forse nella sua spietata e allucinatoria diserzione l’unico rimasto realmente lucido nel delirio bellico) del proprio stesso esercito, o come l’assurda contraddizione di chi attacca sulle note di Wagner ostentando machismo, «fare spazio» e «profumo di vittoria», ma in realtà vorrebbe solo tornare a cavalcare come un bambino con la sua tavola da surf quelle onde appiattite proprio dal suo napalm. Non può che essere un film in bilico fra gli errori e gli orrori di cui è impossibile non macchiarsi in ogni forma di colonialismo, nella volontà di controllo da parte di chi si ritiene depositario della giustizia e della democrazia e per questo invade e uccide, o ancora nell’aspetto mediatico di una guerra diventata ormai definitivamente spettacolo e menzogna televisiva, con tanto di apparizioni di Coppola e Storaro che appaiono nel bel mezzo della battaglia a chiedere ai soldati di «continuare a combattere» in favor di camera. Non può che essere un film eternamente in attesa, in esplosione e in divenire, come la sostanziale e inquietante catalessi di chi venera Kurtz come una divinità pagana, come il verboso e distorto divinizzarlo del Dennis Hopper fotografo free lance rimasto intrappolato nell’aura oscura del colonnello, o come la volontà di questa figura ormai eterea e ultraterrena, sfuggente come i tagli di luce in cui (l’ingrassato) Marlon Brando aveva preteso di essere nascosto, di essere sacrificato ma giammai giudicato. Non può che essere un film perennemente da ripensare (e rimontare) nelle sue infinite stratificazioni e nei suoi simboli che giorno dopo giorno tragicamente si rinnovano, dal bombardamento finale delle primissime proiezioni, male interpretato dal pubblico convinto non di un’astrazione dell’orrore bellico ma della distruzione del villaggio di Kurtz e quasi subito sostituito da Coppola con un semplice schermo nero sul quale far scorrere i titoli di coda, fino ai ripensamenti più corposi, con Apocalypse now Redux a riprendere nel 2001 praticamente tutto ciò che nel ’79 era stato tagliato dal montaggio originale aggiungendo una saturazione eccessivamente esplosiva e oltre 50 minuti di scene aggiuntive, e ora con questo Final Cut che interviene ad alleggerirlo, riaggiustando il tiro sui parametri cromatici troppo ritoccati a inizio Duemila dal DOP Vittorio Storaro, rimasterizzando in uno straordinariamente immersivo e potente Dolby Atmos il sonoro, e ponendosi con i suoi 183′ come una versione intermedia fra i 147′ originali (forse ancora adesso preferibili per compattezza narrativa e potenza nel ritmo, ma effettivamente privi di un paio di stratificazioni presenti solo nella colonia francese) e i 202′ di quel ben più debole Redux che, evidentemente, nelle sue digressioni e lungaggini non aveva mai convinto fino in fondo nemmeno il suo autore. Ecco quindi che questo Final cut, pur con la sua “colpa” di essere il primo non ristampato in pellicola (la cui maggiore e impercettibilmente discontinua luminosità, specialmente sui paesaggi più abbacinanti, un po’ manca), si asciuga rispetto al Redux della lettura dei giornali da parte di Kurtz, della parentesi di «svago sessuale» – di fatto immotivata nel passaggio in pochi giorni da conigliette a prostitute delle ragazze di Playboy – interrotta dal ritrovamento del cadavere di un soldato, e si rende conto della necessità di rinunciare alle depotenzianti poesie in francese dei bambini – figli di Coppola – quando il plotone di soldati giunge nella colonia, per il resto rimasta immutata sia nei discorsi a tavola che vedono gli errori militari statunitensi così simili a quelli passati del colonialismo francese sia nell’affascinante incontro oppiaceo ed erotico di Willard con la rampolla di famiglia, che come una sorta di novella Maga Circe pone l’accento sull’inevitabile dicotomia di ogni soldato, costretto a liberare i suoi istinti animali fino a sentirsi un semidio, che ama e al contempo uccide. Come pure di Redux è rimasto, assente nella prima versione, il divertente ma tutto sommato inutile nella progressione narrativa furto della tavola da surf al Bill Kilgore di Robert Duvall, è rimasto, con tutta la sua ambiguità contraddittoria, il porgere la borraccia da parte di Kilgore del «valoroso Viet-Cong» al quale aveva appena distrutto casa e famiglia lanciando carte da gioco per (non) identificare i cadaveri, ed è rimasto il «pericoloso» entusiasmo di Clean (un appena sedicenne Lawrence Fishbourne che aveva mentito sull’età pur di essere scritturato) il giorno dopo aver incontrato le Playmate nel loro squinternato spettacolo interrotto dalla foga e dalla frustrazione dei soldati.
Sarebbe esercizio tutto sommato superfluo, dopo i fiumi di inchiostro ben più nobile e intelligente del nostro che in quattro decadi si sono spesi nell’analisi di un conclamato capolavoro come Apocalypse now, soffermarsi ancora una volta sulla sua lucida brillantezza nell’alternare gli eccessi di brutalità e di frivolezza più sventata, sulla straordinaria potenza poetica e iconografica delle sue immagini oscure, infuocate, taglienti, emotive e profondamente fisiche, sulla sua capacità di arrivare per primo anticipando di parecchi anni altri testi cinematografici fondamentali assimilabili come il Kubrick di Full Metal Jacket o il dittico depalmiano Vittime di guerra / Redacted, o ancora sulla dolcissima amarezza che sta nell’assurdità di Clean ucciso proprio mentre ascolta la cassetta in cui la madre lo rincuora raccomandandogli di stare lontano dai proiettili o nella dolente constatazione della fatuità umana, così inevitabile nel contesto bellico, che Coppola sa amaramente mettere in scena senza mai giudicare, ma anzi immergendosi commosso nella stessa spirale di orrori, ambiguità, violenza e traumi. Sarebbe superfluo scrivere ancora dell’isteria, del sudore, della frustrazione, della tossicodipendenza e della malaria che stringono il cappio alla gola dei protagonisti durante la loro progressiva e (in)evitabile discesa agli inferi, o ancora di come attraverso il fascicolo su Kurtz e le parole seducenti e sofferte del generale/tiranno/Dio impazzito non solo Willard ma ogni spettatore non possa che procedere nella conoscenza psicologica della natura umana, e quindi inevitabilmente anche di se stesso. Attraverso una guerra che è strage degli innocenti per un sospetto sbagliato, amarezza, squallore, confusione, progressiva astrazione, delirio, allucinazione, visione dantesca di cadaveri esposti, ostentati, ai quali approdare fra due ali di imbarcazioni fantasmatiche così come dallo Stige si approda all’inferno. Così come sarebbe esercizio tutto sommato superfluo soffermarsi ancora una volta, l’ennesima, sull’«orrore» d(e)i Kurtz, quello della braccia appena vaccinate staccate ai bambini come esempio di buona guerra spietata, quello quotidiano di chi è Signore di un’Ade sulla Terra, quello di chi spara, quello di chi muore, quello di chi non potrà mai più vivere nella società e nemmeno nella civiltà, quello delle inaspettate lacrime umane del colonnello, della sua volontà di morire da soldato, finalmente liberato dal dolore ma conscio che qualcuno potrà raccontare la verità a suo figlio. Nella guerra psicologica di ordini segreti e di intimidatorie teste lanciate, Kurtz è in realtà un uomo distrutto, fragile, distaccato ormai anche da se stesso, abbandonato e per sempre ingiudicabile nel suo essere carnefice proprio perché vittima dell’orrore, come un novello Re/Sacerdote destinato a diventare capro espiatorio con cui purificare se stesso e la sua selva di dannati. Tanto che la sua fine non potrà che essere alternata con il sacrificio idolatra di un bue in suo onore, uniti nell’espiazione, uniti nel lavare con il proprio sangue i peccati dell’intera (in)umanità persa nella dissoluzione etica dell’odio e della guerra. «This is the end», torna a gemere Jim Morrison, mentre il villaggio al passaggio di Willard che ha appena «posto fine al suo comando» si inchina al nuovo dio/re che saprà declinare l’offerta e ripartire, «The end of laughter and soft lies, the end of nights we tried to die. This is the end». Sempre ammesso che Apocalypse now, eterno nella sua vis politica antimilitarista e antibellica, eterno nel suo divenire, eterno nella sua potenza psicologica, eterno nella sua attesa e ricerca, eterno nei suoi (ri)montaggi, possa realmente avere una fine. «Come on, baby, take a chance with us, come on, baby, take a chance with us, come on, baby, take a chance with us and meet me at the back of the blue bus. Fuck, fuck. Kill, kill, kill…». E il mito continua, necessario, fondamentale, profondissimo, oggi come ieri.
Marco Romagna