Ed è cominciato inevitabilmente un nuovo TFF, un nuovo Torino Film Festival, una nuova sequela di giornate all’ombra della Mole Antonelliana tra una sala cinematografica e l’altra, alla scoperta e alla riscoperta dei film persi durante l’anno, durante gli anni passati, durante tutti gli anni. La kermesse sabauda è tradizionalmente ciò che chiude, o quasi, l’anno cinefilo, l’appuntamento fisso di fine novembre che concentra, al di là del Concorso di opere prime, seconde e terze, una serie pressoché infinita di anime che vanno da un’accurata selezione dai Festival in giro per il mondo – non solo Berlino, Locarno e Cannes, ma anche e soprattutto Toronto e New York – alle sezioni parallele TFFdoc e Onde, passando per retrospettive splendidamente curate e per uno sguardo sempre attento sui film di genere con la sezione After Hours. E proprio con After Hours, quando ancora si chiamava Rapporto Confidenziale, è nato il rapporto speciale e duraturo di Sion Sono con il Torino Film Festival. Già nel 2002 Suicide Club aveva iniziato a incontrare i primi favori al di fuori del Giappone, poi al Far East di Udine 2008 arrivarono i 240 minuti del capitale Love Exposure, a Venezia 2010 Cold Fish trovò collocazione e applausi in Orizzonti e l’anno successivo Guilty of Romance andò a Cannes, mentre Himizu venne presentato nel concorso principale della Mostra lidense. Ma è stato solo con la retrospettiva completa del TFF 2011 che il cinema di Sion Sono, attivo da metà anni Ottanta e passato dal B-movie più apertamente gigioneggiante al più fine melodramma, passando per la distopia politica e per le ripetute domande esistenziali post-Fukushima, ha finalmente trovato la propria definitiva consacrazione anche in Europa, e la conseguente pletora di sostenitori più o meno accaniti fra i quali siamo ben felici, da molto tempo, di annoverarci. È un rapporto, quello fra il poliedrico regista nipponico e la Mole, proseguito e cementato nel corso degli anni, nei quali sugli schermi del Massimo e del Reposi è apparsa tutta la produzione successiva di Sion Sono non ospitata da altri Festival italiani: Why don’t you play in hell? andò ancora in Orizzonti a Venezia, The Whispering Star a Roma (e poco dopo al Trieste Science+Fiction) e The Virgin Psychics al Future di Bologna, mentre The Land of Hope, Tokyo Tribe, Tag, Love and Peace e il comunque difendibile ma nettamente meno riuscito Shinjuku Swan, del quale è in programma un sequel, hanno trovato proprio nel corso delle manifestazioni sabaude le loro prime italiane. Quello di Sono è un percorso cinematografico curioso, di rara coerenza eppure sempre sorprendente, che dopo la superprolificità “miikiana” del 2015 con ben cinque titoli sfornati torna quest’anno con Antiporno a fare “solo” un film all’anno, forte in compenso di un’ispirazione, di un coraggio, di una cinefilia e di una vis politica in grado di elevarlo dalle parti delle vette più alte raggiunte dal regista.
Prima di tutto c’è il “roman porno”, genere erotico – non pornografico – che fu cavallo di battaglia della storica casa di produzione Nikkatsu già nei primi anni Settanta, fra trame articolate e un romanticismo di fondo che, in anni di liberazione, lo rendeva appetibile anche a un pubblico femminile. Un genere che la Nikkatsu ha deciso ora di far rivivere, commissionando una serie di reboot totalmente liberi a diversi registi – fra i quali avevamo già avuto modo di vedere, in concorso all’ultimo Locarno, il discreto ma in sostanza vacuo Wet woman in the wind di Akihiko Shiota – e che con Sion Sono approda finalmente alla grande firma e al grande film. “Antiporno” già etimologicamente è un termine che dobbiamo approfondire. Cos’è il contrario del porno? Se il porno lo intendiamo per quello che è nell’etimologia comune, ovvero il filmato (in ogni forma, dal cinema “vero” fino alla ripresa in 144p fatta dal Nokia agli amici) di sesso reale creato per lo scopo di creare eccitamento sessuale e invitare alla masturbazione, il suo contrario dovrebbe essere qualcosa di profondamente pudico, qualcosa che non può creare alcun effetto da un punto di vista erotico perché, di per sé, il punto di vista erotico sembra essere assente. Sion Sono, tuttavia, per “Antiporno” intende altro: non è l’estetica a essere minimalizzata (o addirittura eliminata), bensì è l’effetto. Da un punto di vista puramente visivo, anzi, Antiporno ha caratteristiche da vero e proprio film soft-porn, con svariate scene di nudo esplicite, con attenzione particolare verso il sesso saffico e i suoi effetti sul cervello maschile (seguendo l’antica teoria pseudo-freudiana del “ciò che eccita di più è ciò che non si può ottenere”) – ma l’inquietudine sembra quasi voler creare un freno da un punto di vista di reazione immediata dello spettatore, un “rinculo”, una fregatura sottocutanea: la scena di sesso può anche essere eccitante, ma tutto ciò che la circonda è talmente pacchiano e caricato da smorzare, forse, l’attenzione verso il feticismo e la perversione, spostandola sul cine-delirio visivo che qui Sion Sono porta ben oltre i limiti che già aveva superato e distrutto svariate volte in passato. Sono in Antiporno si dimostra più arrabbiato che mai con la società giapponese, ma questa è una rabbia che si dimostra soprattutto verso la sessualità e verso la propria sessualità, più o meno come in Tag, in cui una specie di vaga e minimale storia d’amore lesbo in un mondo di sole donne veniva frenata e uccisa da un sacrificio “virtuale” capace di aprire porte verso il mondo degli uomini, verso il desiderio che si attua e smette di essere semplice pornografia. Sempre che esista, una semplice pornografia. Alla fine, lo sguardo pornografico è lo sguardo che più in assoluto, in tutti i generi cinematografici, crede nella reazione dello spettatore e necessita solo e soltanto la reazione, sfavorendo ogni caratteristica tecnica o concettuale, puntando solo e soltanto alla ricerca del primordiale e animalesco eccitamento di chi osserva.
Sion Sono, però, vuole di più. Vuole che ci si immerga nell’eleganza delle sue inquadrature e della sua pellicola, in queste riprese a corridoio che ricordano quasi un Greenaway plastico e kitsch, sospeso tra l’incubo jodorowskiano-felliniano e il character design di Arancia Meccanica. Sono le riprese del meta-regista, un alter ego di Sono nel roman porno, figura maschile a lato di un palco di sole donne: “Voglio spogliarmi e voglio fare tanto sesso, voglio essere una puttana”. Qui più che mai Sion Sono sperimenta con il montaggio e con la regia, mostrando svariati stili e svariate maniere d’approccio verso quella che apparentemente è una ripetizione della stessa sequenza, e che invece appare ben presto come un altro mondo, un altro livello, la condanna a rivivere quotidianamente lo stesso incubo, lo stesso trauma, lo stesso dolore – “Leccami, inginocchiati, abbaia”. Fra attrici che non credono in se stesse e l’ossessione per i genitori che fanno lubrico sesso, i cambi di registro sono attuati con una precisione che stordisce e confonde: dallo stacco onirico tarkovskiano alla rivelazione cinematografica in cui il campo-controcampo si trasforma in un set-palco, dall’annullamento della sessualità attraverso la ripresa in pellicola (“questo è il video su come ho perso la verginità!”, e l’immagine proiettata non mostra nulla se non uno spazio all’aperto vuoto), fino alla tramutazione dei drammi personali e intimi in uno scambio di sguardi, dallo sguardo maschile che cerca l’eros saffico violento e sadomasochistico fino a quello femminile, parodistico, che attua una sorta di stupro mosso dalla figlia verso il padre e che sparisce come una troupe sostituita da un cavalletto. È uno schema meravigliosamente lynchano, quello di Antiporno, uno schema che crea una realtà, la ribalta, si sposta ancora e poi la rivoluziona nuovamente, mettendo in scena, fra ruoli scambiati in tutta la loro violenza, politica, sesso e forse anche un pizzico di solaristica, tutti i possibili lati della realtà e tutte le possibili declinazioni dei personaggi, per poi farli convergere in una drammatica pioggia di colori, ricordi, fantasie: il sogno di entrare in un quadro, arte nell’arte, dal dipinto al romanzo, dal teatro al cinema, dalla letteratura alla danza, mentre il trauma di una vita, quella sorella minore che non c’è più, suona Mozart al pianoforte e ancora sorride. È un Sion Sono al contempo complesso e ultra-pop, sospeso fra la distopia e il sogno, fra il metacinema e la ricerca della consapevolezza sessuale, fra “l’importanza di pisciare e cagare” e la situazione di una donna in Giappone non più proprietaria della propria femminilità, fra l’umiliazione/stupro di una donna-segretaria-fan-serva-cagna e le immagini delle manifestazioni contro le politiche destrorse di Shinzo Abe che fanno capolino dagli schermi televisivi, fra l’arroganza dell’artista e l’incomunicabilità capricciosa delle attrici, fra le crisi di vomito e gli incroci di lingue, fra il sangue che zampilla e le mutande falliche, fra vergini e puttane, o forse semplicemente perso nell’impossibilità di essere l’una e/o l’altra. Dal sesso in famiglia allo sguardo, dall’incubo distopico al metacinema, Strange Circus incontra The Whispering Star sulla strada per Why Don’t you play in Hell?, nel Sion Sono più politico dai tempi di The Land of Hope. Il rimasticare generi e suggestioni anche sessuali, stavolta, nient’altro è che l’immagine di un Giappone nella sua nudità: un Giappone violato e al contempo altezzoso e sottilmente perfido, un Giappone che ha più che mai bisogno di riscoprirsi e lasciarsi andare. “Sono la più grande puttana del mondo”, ma poi ci si ritrova faccia a faccia con i propri fantasmi e con le proprie inadeguatezze.
Alla fine, a dispetto del titolo e del genere “di consumo” in cui qualcuno lo vorrà relegare, Antiporno è uno dei film più eleganti, lenti e teatrali di Sion Sono, più o meno come The Whispering Star che già approfondiva il reame della distopia tarkovskiana. Tra titoli al neon – che, uniti alla tracotanza fagocitante della vip, più che un pensierino all’ultimo Refn lo fanno fare – e torte in faccia di sempiterna tradizione, Antiporno ha tra i suoi aspetti più interessanti anche quello di essere una riscrittura irosa e distruttiva di gran parte del cinema dell’autore: ad esempio il metacinema giocoso di Why don’t you play in hell? diventa qui serissimo commento sulla condizione di sguardo dell’uomo e della donna nella società giapponese; la contrapposizione tra “mondo delle donne” e “mondo degli uomini” resa in maniera semiseria da Tag è qui resa con un approccio concentrato non più solo sul concetto (filmico e videoludico) di “donna” e “uomo”, ma proprio sui loro corpi, sulla loro pelle e soprattutto sui loro sguardi; l’idea di cinema come arte del pervertito, proposta per la prima volta in Love Exposure, qui è portata alle estreme conseguenze con una specie di visione completa e delirante dello scopo dello sguardo umano, atto soltanto alla perversione e alla distruzione di ciò che è stato precedentemente creato; e poi, soprattutto, c’è la pioggia di colori di Himizu, lì sfogo mortifero rappresentativo di una ricerca fallimentare di un qualcosa di positivo e folgorante nella quotidianità adolescenziale, e qui usata come per mettere in gioco e quasi “insultare” (esagerando) il finale di Tag, con il bianco che annulla tutto che diventa colore puro, melma, rabbia e forza vitale: un orgasmo cromatico sotto le note di musica classica, che scorrono potentissime. E per quanto l’abuso dell’effetto audio di sottofondo fatto di droni e battiti di cuore (spesso usato da Sion Sono) potrebbe risultare per qualcuno troppo ossessivo, qualsiasi altra obiezione al film finirebbe per sgretolarsi o quasi davanti a una visione talmente rappresentativa ed enfatica di uno sguardo ormai sempre più complesso e sfaccettato, nato dall’intrattenimento nipponico di culto per i fan dei manga e da uno sperimentalismo filtrato da ore e ore davanti alla cinematografia più cerebrale e celebrata per poi diventare, a questo punto della storia del cinema, un vero e proprio cine-delirio di sensazioni e colori, in cui tutto si sovrappone in maniera magica e pienamente, a suo modo, lynchana. E tra uno sguardo in macchina e una mano sanguinolenta che sfiora un libro pieno di immagini di farfalle, Antiporno già vola alto nel meraviglioso mondo di questo regista, che ogni anno sembra confermare la propria importanza nell’ambiente filmico moderno – stupendo spesso con la propria maturità e la propria capacità di tramutare qualsiasi giochino postmoderno in un prodotto capace di indurre caotiche crisi esistenziali e cinematografiche in chiunque. Sì, perché si comincia sempre dal gioco, e poi ci si trasporta, come fluttuando su di una nave imprevedibile, verso la follia e la violenza, allontanandosi dal cervello e avvicinandosi all’anima.
Marco Romagna, Nicola Settis