Lascia ch’io pianga
La cruda sorte
E che sospiri
La libertà!E che sospiri
E che sospiri
La libertà!
Lascia ch’io pianga
La cruda sorte
E che sospiri
La libertà!Il duolo infranga
Queste ritorte
De’ miei martiri
Sol per pietà
De’ miei martiri
Sol per pietàLascia ch’io pianga
La cruda sorte
E che sospiri
La libertà!
E che sospiri
E che sospiri
La libertà!Lascia ch’io pianga
La cruda sorte
E che sospiri
La libertà!
Georg Friedrich Händel, Lascia ch’io pianga, dal secondo atto del Rinaldo (1711)
Chaos reigns. Sarebbe dovuto essere tutt’altro, Antichrist. Sarebbe dovuto essere un film horror già in preproduzione nel 2005 e mai realizzato, o meglio cestinato e riscritto integralmente quando, a causa di un malinteso, al produttore esecutivo Peter Aalbæk Jensen co-fondatore della Zentropa finì per scappare pubblicamente la sua rivelazione finale secondo la quale la Terra sarebbe stata creata da Satana e non da Dio. In quegli anni l’attività di Lars von Trier era frenetica, ispirata, mai così fervida: era appena uscito Manderlay, secondo capitolo della trilogia avanguardista, brillantemente ispida, minimale e metateatrale USA, terra delle opportunità inaugurata due anni prima con Dogville e della quale era previsto per il 2007, poi rimandato e ancora oggi dormiente nel cassetto, Wasington, e nel frattempo erano già iniziate le riprese del divertissement – che poi in realtà è ben più di un divertissement – Il grande capo. Nell’arte in generale, però, i maggiori capolavori sono soliti germogliare sul malessere, e nello specifico la genialità di Lars von Trier è sempre stata legata a doppio filo con le sue fobie, con i suoi attacchi di panico improvvisi e impossibili da domare, con la sua depressione cronica, con il suo intimo e profondo male di vivere. Ed ecco che quindi, chaos reigns, giunge come un fulmine nel bel mezzo della prolificità uno dei periodi di depressione più cupa nell’intera vita del regista, in cui le cineprese si sono fermate per tre anni, per poi ripartire solo con la dolorosa rinuncia di Lars von Trier a manovrare personalmente la macchina da presa a mano, uno dei fondamenti del Dogma95, pur di riuscire a dirigere gli attori.
Antichrist è un film maledetto sin dalla genesi, totalmente rivoluzionato rispetto a quell’originaria idea embrionale “spoilerata” della quale aveva conservato solo il titolo, giocato a metà fra la razionalità e la suggestione, fra L’anticristo di Nietzche e la caccia alle streghe, fra il piacere e la disperazione, fra il dolore personale e il male più puro. È un’opera disturbante, complessa, provocatoria e necessariamente nevrotica sull’uomo messo di fronte all’irrazionale della paura, della perdita, della colpa e del malvagio, per la quale Lars von Trier ha sempre detto di aver dovuto lavorare “al 40% delle possibilità”, psicologicamente provato ma deciso a trovare una propria catarsi attraverso le immagini, attraverso la lingua filmica e la filosofia, attraverso la psicanalisi su cui è sempre stato scettico e le trovate visive che accompagnano o deliberatamente interrompono la narrazione, attraverso le simbologie cristiane e il profondo ateismo che sempre lo ha contraddistinto. Antichrist è una spirale di dolore e di follia, è una commistione unica di orrore, erotismo, thriller, grottesco e dramma, è un viaggio apparentemente senza uscita nella depressione e un atto di accusa contro il maschilismo da sempre latente nella società, anche femminile. È un cappio alla gola che progressivamente stringe la sua morsa fra l’elaborazione del lutto, i sensi di colpa, il femminicidio e l’ambivalenza di una natura idilliaca eppure atterrente, il luogo nel quale gli animali sbranano gli altri animali, una vera e propria “chiesa di Satana” di malvagità, superstizioni e orrore in cui anche una castagna che cade può ferire più di un proiettile. Antichrist è il fisico che si scontra con il metafisico, nei corridoi più oscuri della mente e nei dolori più insormontabili di una vita, nell’infinito tabù della sessualità e nel Male che puntualmente si ripresenta, nella capacità critica che viene meno e in un concetto sbagliato quanto secolare che si impossessa anche di chi vorrebbe studiarlo per confutarlo e distruggerlo.
Antichrist sono genitali, sangue, forbici, dolore, Antichrist è masturbarsi selvaggiamente sotto la quercia secolare che sormonta il giardino, Antichrist è un rapporto sessuale che richiama morte, mani che spuntano dalle radici, sperma insanguinato, brividi e figli perduti per sempre nel rutilare degli ormoni. Antichrist è l’orgasmo alla base della colpa, è l’orgasmo per (non) curarsi, è l’ultimo orgasmo prima di punirsi, recidendo fisicamente ogni possibilità di ulteriore piacere. Antichrist è quell’atavico retrogusto di paura e intima vergogna insito nel piacere del sesso, è la fragilità femminile che si fa risolutezza, mentre la prestanza fisica e psicologica ostentata dell’uomo rivela tutta la sua inadeguatezza. È già tutto nel prologo e nei suoi dettagli, il Lascia ch’io pianga di Händel che risuona come un singhiozzo di disperazione nel suo tempo irregolare e nei leggeri echi della Chiesa che ne ha ospitato la registrazione, la profonda eleganza del bianco e nero filmato a 1000fps e poi rallentato, dilatando a dismisura l’atroce balletto fra ἔρως e θάνατος che si consuma nella casa dei protagonisti. Lui e Lei fanno appassionatamente l’amore sotto la doccia, gemono travolti dalla lussuria, lasciano cadere oggetti senza curarsi d’altro che della loro soddisfazione, tanto da non sentire il figlioletto mentre apre il cancelletto dentro il quale dovrebbe dormire, mentre scende verso le scarpe appoggiate (quasi impercettibilmente) al contrario ai piedi del lettino, mentre si arrampica verso la finestra attratto dalla neve. Dal tavolo, il bimbo lascia cadere le statuette dei Tre Mendicanti Grief, Pain e Despair – Dolore, Sofferenza e Disperazione, titoli dei capitoli, animali parlanti, fasi dell’elaborazione del lutto e inesistenti costellazioni su cui ritorneremo – e poi scivola giù dal cornicione, schiantandosi esanime al suolo. Fine di un ciclo, come quello della lavatrice, fine di una vita, fine di una normalità. Apparente, per lo meno. E senza dubbio atterrente.
Antichrist è il crollo nervoso di una madre al funerale, è un percorso a ritroso nella sua depressione e nei suoi timori, è un viaggio verso quella natura e quel luogo, Eden, dove tutto è iniziato, in una terapia d’urto che scarterà progressivamente dal razionale al metafisico scoperchiando il vaso di Pandora di una superstizione lunga un’intera storia della letteratura e dell’uomo, e rivelando come il Male stesse già da tempo facendo il suo corso a metà strada fra la suggestione e la possessione. Eppure, per quanto Lei venga dipinta come terribile fra (auto)torture, (auto)erotismo ben oltre i limiti del sadomasochismo – “Hit me! Again!” – e sguardo di ghiaccio, non è mai realmente responsabile delle sue azioni: la colpa è tutta delle autosuggestioni, del male e del maschilismo che da sempre albergano nel mondo, dell’impotenza umana mentre si prova a capire ciò che è inspiegabile, insensato eppure da sempre radicato nelle varie culture come la superiorità maschile e la donna strettamente legata alla Natura e quindi al demonio. Lars von Trier, dopo un acuto lavoro di ricerca, mette sul piatto veri e propri deliri storici e sociali di cui si trova traccia da Aristotele a Nietzche, da Tertulliano alla Santa Inquisizione, passando per secoli di incubi lasciati su carta da miniaturisti e illustratori d’ogni cultura fino a giungere a testi redatti da sacerdoti cristiani in cui venivano spiegate per filo e per segno le torture da perpetrare contro una donna per costringerla a confessare il suo legame con Satana. La vera “colpa” di ciò che viene messo in scena in Antichrist, sempre che esista una colpa di fronte al destino, è della paura, della superstizione, della fragilità, della storicizzazione che rende digeribile qualsiasi evento storico. E, forse, in un certo senso la colpa maggiore è della religione, in quanto creatrice e indirizzatrice di fobie collettive, in quanto colpevole in passato di orribili crimini contro l’umanità. Senza dimenticare, come ricorda la volpe-Sofferenza parlante, che la colpa è sempre del caos, perché “Chaos reigns”.
Antichrist è un film profondamente sofferto e controverso, accolto senza particolari entusiasmi a Cannes 2009 al di là del (doveroso) premio come miglior attrice a Charlotte Gainsbourg e ancora oggi drammaticamente sottovalutato, ingenerosamente accusato di freddezza e misoginia da chi si rifiuta di capire come lo sguardo di von Trier sia al contrario profondamente umano e femminista, quando non smaccatamente femminile, nel tenere sempre al centro la donna, risoluta e fragile, perversa e timorosa, atroce e sensuale, mentre l’uomo-oggetto che le sta accanto puntualmente fallisce, sempre più a latere, sempre più sopraffatto. A von Trier interessa la donna, la moglie, la madre, la studentessa, la strega, Medea, la voce suadente di Björk in Dancer in the Dark, le sorelle che si scambieranno frustrazione e serenità in Melancholia. Ora, in Antichrist, la donna è l’anima sperduta nel bosco, impaurita, devastata, esposta alla depressione, e con lei al cieco furore del maligno. La donna, nelle sue insicurezze e nelle sue (auto)difese, la donna depressa, stranita, alla ricerca di se stessa, del proprio corpo, della propria autodeterminazione, della propria pace. Attraverso le forbici di Antichrist, attraverso la noncuranza per la fine del mondo di Melancholia, attraverso il sesso illusorio e i ricatti di Nymph()maniac. Anche a costo di fare del male, anche a costo di distruggere, anche a costo di morire. Nell’impotenza umana, all’apice della piramide delle paure non può che esserci la propria stessa natura, il terrore di possedere una propria intima essenza malvagia come occasione dalla quale perdere il controllo e far deflagrare tutta la propria malvagità repressa. “Se è vero che la natura dell’uomo è malvagia, allora anche la natura della donna è malvagia. Non sono le donne a controllare il proprio corpo, è la Natura che lo fa”, dice Lei a Lui nel corso di una delle tante sedute psicanalitiche: è la Natura a decidere se e quando nel corpo di una donna può verificarsi il miracolo della vita, così come è la Natura a decidere se e quando le streghe torneranno, in una marcia di donne senza volto, all’Eden, luogo-non-luogo in cui tutto, compresa la Natura, ha inizio e fine.
Già, Eden, il luogo chiuso, isolato, con proprie regole, come l’Overlook Hotel, come la Zona, come la casa di famiglia. Il luogo dove “Chaos reigns”, il caos regna, come nei corridoi kubrickiani di Shining in cui nel non-spazio e nei percorsi della mente finisce per perdere il suo scorrere anche il tempo. Chaos reigns, il caos regna, come nel non-luogo in cui si muoveva lo Stalker di Andrej Tarkovskij al quale Antichrist è esplicitamente dedicato, nel momento in cui saltano le ferree regole di sopravvivenza. Chaos reigns, il caos regna, come nella famiglia dal padre quasi assente che sempre Tarkovskij aveva faticosamente ricostruito ne Lo specchio e che ora, con le stesse digressioni narrative e un mood tutto sommato simile, Lars von Trier all’apice della propria depressione distrugge. E, del resto, tutto il film è uno specchio: lo specchio del Male, lo specchio di una donna, lo specchio del dolore, lo specchio del caos. Le streghe convocano la grandine: Chaos reigns. Regna nei comportamenti del personaggio che vive nel corpo di Charlotte Gainsbourg e nelle sue grida “Where are you?” quando, in preda alla stessa furia cieca delle Erinni, cerca e trova Lui, Willem Dafoe, ormai infermo per via della mola innestata nel polpaccio e incapace di combattere con il Corvo, simbolo animale della Disperazione, che prima lo fa scoprire con il suo gracchiare ma poi gli salverà la vita facendogli trovare la chiave inglese con la quale liberarsi e uccidere Lei, la strega, con la pira come unica via per ritornare all’ordine naturale delle cose. Il caos regna negli studi di Lei per quella tesi di laurea mai conclusa sulla persecuzione delle donne nel corso dei secoli, i cui appunti si erano fatti via via più illeggibili, deliranti, caotici, mentre le fonti infarcite dei concetti da rifiutare e combattere facevano lentamente breccia nella sua anima. Il caos regna in Lui quando si renderà conto, troppo tardi, che spinta dalla paura di fare del male, da diversi mesi, la madre stava provocando al figlio dolori e leggere malformità allacciandogli di proposito le scarpe al contrario. Il caos regna nella Natura malvagia che tutto governa, anche perché, semplicemente, “Quando arrivano i Tre Mendicanti, qualcuno deve morire”, e nessuno può farci nulla. Così come, necessariamente, il caos regna nella rivoluzionaria messa in scena di Lars von Trier, fra macchine a mano che diventano motion control, lenti distorcenti per rendere innaturale la Natura del bosco, audaci sfocature per mettere in scena gli attacchi di panico, ellissi temporali, sospensioni liriche, ralenti, zoom, sessualità mortifera dall’erotismo annullato, animali, ambienti reali e una CGI splendidamente invisibile.
Fra gli eventi del Lucca Film Festival 2017, è stato tributato un premio alla carriera a Willem Dafoe, attore capace di lavorare, oltre che con von Trier, per autori del calibro di Scorsese, Angelopoulos, Ferrara, Schrader, Friedkin, Cronenberg, Wenders, Herzog, Lynch e Cimino. Fra tutti i film della sua luminosa carriera, Dafoe stesso ha chiesto che venisse proiettato Antichrist, capolavoro fra i capolavori e probabilmente il suo miglior ruolo. Un film difficile da digerire, fatto di immagini crude e di controfigure professioniste del porno, un film che provoca dolore fisico allo spettatore, un film atrocemente sublime, che nasconde al di sotto del suo strato superficiale di perfidia e di costante sfida allo spettatore un’umanità incontenibile, fatta di incubi, di irrazionalità, di terrore ancestrale, di desiderio, di reale disagio, di malessere, di intima devastazione, “Non scoperai con il tuo psicoterapeuta”. Ma è la Natura, vero e proprio personaggio del film, a fare paura, in quanto essenza al di sopra dell’uomo, entità incontrollabile che in qualsiasi momento può riprendere il controllo delle sue creature: “Era la cosa più stupida che potessi farti”. Chaos reigns, nelle inquadrature traballanti e nella colonna sonora fatta di campionamenti elaborati da suoni rigorosamente naturali, dalla voce umana allo stridio dei fili d’erba sfregati o soffiati via. Chaos reigns, nei cambi d’umore e nelle figure dei Tre Mendicanti, statuette, cerbiatti con un piccolo morto come coda, volpi moribonde che annunciano l’arrivo del caos, corvi volanti, stelle “che non esistono” eppure si presentano fuori dalla finestra, fasi attraverso le quali il dolore si modifica, si radica, si esaurisce – o ancora esplode in un lago di sangue, in una pietrata stordente, in una mola, in una forbice, in uno strangolamento, nel fuoco che tutto distrugge e purifica. O forse no. Antichrist si snoda dal prologo all’epilogo, passando per quattro capitoli di progressiva immersione nel malvagio. Il cerbiatto-Dolore lascia il passo alla volpe-Sofferenza, fino a quando il corvo-Disperazione arriverà a sparigliare le carte così come il caos lascia il passo al metafisico nella fisicità massima del femminicidio. E, dopo il ritorno, insieme, dei Tre Mendicanti, rimarranno solo i passi di un uomo solo, zoppo e distrutto, le bacche mangiate avidamente, il cammino in senso contrario delle donne senza volto, corteo funebre di soli sconfitti. Un brivido che lascia spazio alle lacrime. Lascia ch’io pianga.
Marco Romagna