Mai sottovalutare il video assist. Non tanto nei film girati in digitale, che ormai con la moltiplicazione potenzialmente infinita delle uscite video può, fra cablaggi, wifi e dirette streaming, mostrare esattamente “ciò che vede” la videocamera a chiunque nel mondo, quanto in quelli ancora in pellicola, che invece di una più o meno avanzata videocamera hanno la tanto ingombrante e rumorosa quanto calda e affascinante cinepresa, che invece dei contrasti netti del digitale hanno le ben più morbide curve cromatiche dell’emulsione, e che invece dei monitor hanno ancora il caro vecchio mirino che solo l’operatore di macchina può guardare direttamente durante le riprese. Fu nel 1960 Il ragazzo tuttofare Jerry Lewis, riporta la tradizione, a perfezionare i pionieristici sistemi già in uso di fatto inventando il video assist, con una sorta di piccolo chip posto fra le lenti dell’obiettivo e i diaframmi della camera oscura in grado di trasmettere a un televisore un’immagine disturbata e di qualità nettamente inferiore a quella della pellicola, totalmente inutile per valutare la precisione o meno del fuoco o la resa dei colori, ma precisa nella costruzione dell’inquadratura e dei suoi ampi margini. Con il passare degli anni e il perfezionarsi dei sistemi, le immagini del video assist hanno iniziato a essere registrate su supporti economici e di mediocre qualità – prima l’Hi8, poi il MiniDV – e sono diventate per i registi, per i truccatori, per gli scenografi e per i direttori della fotografia un materiale fondamentale per controllare il girato già esistente ed eventualmente poter ricostruire il set, l’inquadratura e le posizioni degli attori esattamente nello stesso modo. Ma non c’è solo questo, nelle immagini registrate sul video assist, non c’è solo il materiale effettivamente impressionato sulla pellicola. C’è anche quello che al materiale girato sta intorno, quando il display non scrive “run” indicando la velocità dei fotogrammi al secondo ma “standby”. C’è la minuziosa costruzione del set, ci sono le prove con gli attori, ci sono le indicazioni dei registi e delle registe. Ci sono i ciak che si avvicinano e si allontanano, ci sono i secondi in cui la macchina da presa non è ancora/più a pieno regime e si trascina più lenta, ci sono le luci gelatinate immediatamente fuori dal quadro. C’è il lavoro di decine di persone generalmente costrette a rimanere nell’ombra, appassionate, concentrate, affaticate, stremate, impegnate a fare in modo, collaborando tutti insieme, che tutto sia perfetto. Non conta “la camera”, conta “l’anticamera”, Antecâmara appunto, con il quale il regista portoghese Jorge Cramez, generalmente impegnato nella finzione e nella più classica messa in scena, porta in prima mondiale nel Concorso Internazionale del DocLisboa 2018, intelligentemente programmato insieme all’ipercinefila intervista Brisseau – 251 Marcadet’s Street di Laurent Auchard all’ipercinefilo Jean-Claude Brisseau, un omaggio commosso e brillante all’atto stesso del girare, alla messa in scena, al set, e a chi sul set si impegna per trasformare il cinema in magia.
Antecâmara parte da due film nei quali, in anticamera, c’era anche lo stesso Jorge Cramez, impegnato nel primo come segretario di edizione, nel secondo come secondo assistente alla regia. Due film di donne, due film forti, due film pienamente portoghesi, due film di interni e di parola, finemente cesellati e accuratamente fotografati. Da una parte Em Segunda Mão (2012) di Catarina Ruivo, le sue figure che quasi emergono dall’oscurità e che poi convergono nei salotti borghesi, dall’altra Cisne (2011), il “Cigno” di Teresa Villaverde, i suoi colori caldi, i suoi sguardi tristi e intensi, la sua profonda speranza, le sue aperture all’esterno. In tutti e due i casi, c’è la preparazione minuziosa, c’è la passione che sta intorno a ogni singola inquadratura, ci sono i riferimenti sullo schermo, i metri di pellicola già impressionati e quelli che invece non hanno ancora mai incontrato la luce. Ci sono gli spostamenti della macchina da presa che rendono l’immagine per pochi secondi quasi inafferrabile, ci sono i piccoli e grandi aggiustamenti all’inquadratura, e ci sono, inevitabilmente, gli spunti e i guizzi teorici di chi mostra chiaramente la messa in scena, il dietro le quinte, facendolo proprio attraverso lo stesso occhio che dovrebbe evitare di vederlo, filtrato dai cablaggi e dalle sgranature digitali. Ci sono attrezzisti, truccatori, microfonisti, tecnici; ci sono registe, attori, tensione, concentrazione, preparazione e sorrisi in un rapporto che cresce ciak dopo ciak. E soprattutto c’è il video assist che continua a registrare, senza audio, con il suo rumore del low-fi digitale che quasi sembra sospirare alla grana che comporrà le immagini sulla pellicola. Sono una manciata di inquadrature, in un punto di vista che sembra sempre lo stesso nelle ellissi temporali e nelle ripetizioni dello stesso quadro e invece è sempre diverso fra campi, controcampi e cambi di sequenza e di ambiente. C’è una porta che si aprirà ma dovrà stare attenta a non aprire troppo l’angolo mostrando anche il giardino alle sue spalle, c’è un dialogo che può essere interpretato in più modi, ci sono gli uomini e i mezzi che rimarranno magari pochi millimetri fuori dal quadro, ma senza i quali il quadro non sarebbe possibile. C’è la vita sul set, ci sono la fatica e la tensione per i tempi stretti, ma c’è anche la convivialità di un lavoro che non può che essere sempre piacevole, sempre formante, sempre divertente, sempre un’esperienza, fra il controllo il più possibile totale e quella percentuale di imponderabile che, magari per botta di fortuna, rende quell’unico take più miracoloso degli altri.
Antecâmara, probabile anticamera dei più lunghi e particolareggiati Actos de cinema secondo Cramez che il DocLisboa programmerà fra pochi giorni, è costruito come una scena: la preparazione minuziosa del quadro, il metro a nastro teso a lato dell’obiettivo per essere precisi al centimetro sul fuoco, il momento di girare entrando nei personaggi, e poi il momento di smontare tutto il set, consci di aver finito, di avere raccolto ciò che si voleva, di aver già lasciato un segno sulla pellicola, in attesa che il montaggio lo trasformi in una storia. Il lavoro sull’audio è uno studio del rumore, quello della macchina da presa, quello dei microfoni sempre con qualche problema e qualche fischio da equalizzare ed eliminare, quello del ferro che, fuori dal campo, rende possibile l’illusione e l’emozione. Quasi come se il suono in sé, fra fruscii e illusioni di un’impossibile sincronizzazione, fosse sempre un elemento di disturbo, un qualcosa che mina la purezza dell’immagine e la sua capacità di immergere da sola nei suoi meandri, nelle sue costruzioni, nei suoi chiaroscuri di luce e di carne. Nella sua (in)spiegabile e oscura forza attrattiva, narrativa, di messa in scena. Certo, forse Jorge Cramez, nel suo sognante quanto concreto omaggio al cinema come atto e alle persone con cui ha condiviso i momenti sempre indimenticabili di ogni set, nel suo riflettere sui punti di vista mutevoli e sul passaggio dalla pellicola al digitale che ha di fatto cambiato radicalmente il senso stesso del video assist, esagera sulle durate, trascinando oltre i 50 minuti un film che, di fatto, aveva già detto tutto quello che aveva da dire dopo 20′. Ma anche l’appesantimento di Antecâmara, in un certo senso, deve esserci, in quanto parte fondamentale della vita di set. Una vita che alterna pressione e noia, fretta e lunghe attese, in cui ogni nome sui titoli di coda, anche il più oscuro, anche quello scritto più piccolo, ha dato una fetta di se stesso per raggiungere un obiettivo comune più grande, l’obiettivo di un’arte collettiva. Antecâmara osserva con la discrezione dell’unico punto di vista della cinepresa una vita fatta di sequenze ripetute fino a quando non funziona tutto per filo e per segno, una vita di emulsione che scorre metro dopo metro, una vita in cui il numero di take sale progressivamente un ciak dopo l’altro. Una vita di «silenzio, si gira» e di corse al laboratorio per sviluppare il rullo. Una vita di positivi e di negativi, ma soprattutto di lavoro oscuro, al quale Cramez, da cinefilo, rende giustizia. Mai sottovalutare il video assist, che lascia nella memoria anche l’invisibile dietro al visibile, che immortala su nastro gli “stand-by” senza i quali i “run” non avrebbero alcun senso. Fino al buio della sala, in cui materializzarsi ancora ogni volta che si spegneranno le luci e il 35mm scaglierà ancora, ingrandito dalle lenti, il suo (non) movimento sullo schermo. Quattro perforazioni alla volta, ventiquattro volte al secondo.
Marco Romagna