ANNA’S WAR (2018), di Aleksej Fedorčenko
“C’è negli uomini un impulso alla distruzione, alla strage, all’assassinio, alla furia, e fino a quando tutta l’umanità, senza eccezioni, non avrà subíto una grande metamorfosi, la guerra imperverserà: tutto ciò che è stato ricostruito o coltivato sarà distrutto e rovinato di nuovo; e si dovrà ricominciare da capo”
Anne Frank, Diario
Prima di tutto c’è il nero, ciò che deve rimanere fuori campo, ciò che non deve essere mostrato. Per lanciare nell’orrore della guerra è più che sufficiente l’audio, fragore ancestrale di grida, stridori, spari, soffi di morte. Solo quando il massacro è finito possiamo aprire gli occhi, solo quando la furia è passata, solo quando i soldati sono già andati via soddisfatti dal loro genocidio quotidiano, e sul terreno rimane solo un mucchio informe di cadaveri, groviglio di mani, piedi, volti, fango, gambe e sangue. La macchina da presa, nell’inquadrarli, urla sommessa e silenziosa il suo dolore in un pianosequenza ravvicinato, tutto di dettagli e di lenti e fluidi spostamenti, fino a quando, nel nugolo dei corpi trucidati, non si aprono gli occhi di Anna, otto-nove anni e obbligata a crescere all’istante, straordinariamente lucida nel fingersi morta per allontanare la morte e da adesso in poi costretta a sopravvivere da sola, nascosta in un mondo ostile, il mondo della guerra, in cui la speranza rimane come unico lume all’orizzonte ma non c’è più spazio per vacui ottimismi, c’è solo consapevolezza di dover sopravvivere nell’orrore, a qualsiasi costo. Anna emerge quasi come uno zombie dalla sua famiglia che non tornerà mai più, e i suoi occhi, riaperti più o meno insieme a quelli dello spettatore sul novembre del ’41 nel quale imperversa la Seconda Guerra Mondiale, saranno quelli attraverso cui (non) vedere la guerra, ma viverla fino in fondo in tutta la sua devastazione, in tutta la sua chiusura, in tutta la sua asfissia. Basterebbe l’incipit, folgorante, per riassumere tutta la portata etica di Anna’s war, ritorno alla regia del sempre straordinario Aleksej Fedorčenko presentato in prima mondiale a Rotterdam a quattro anni di distanza da Angels of Revolution. La violenza fisica della guerra, la sua furia e la sua “azione” rimangono al buio, fuori dalle finestre, dietro alle palpebre che restano chiuse, e lì rimarranno per tutto il film: non c’è spazio per la spettacolarizzazione, quel che conta è lo sguardo di Anna, la sua sofferenza nella costante oppressione di una situazione insostenibile, e quel che conta è la sua silenziosa reazione, il suo andare avanti nonostante tutto, procedendo nell’astrazione sempre più claustrofobica di un non-luogo sapida immagine del conflitto.
L’edificio nel quale Anna si nasconde potrebbe essere una vecchia scuola occupata, potrebbe essere un vecchio museo, potrebbe essere un avamposto dei nazifascisti così come degli Alleati, non è questo ciò che conta. Quello che conta è la sua funzione di emblema della guerra, di Babele di lingue in cui passano le varie parti in causa del conflitto fra russi, ucraini, tedeschi, francesi e rumeni. Siamo, è vero, nei territori dell’attuale Ucraina, al tempo sotto l’occupazione nazista, ma Anna’s war non vuole rimettere in scena eventi storici, né tanto meno riferirsi all’attuale stallo fra lo Stato ex sovietico e la Federazione Russa. Fedorčenko vuole semplicemente creare un’immagine universale della guerra da esplorare con gli occhi di una bambina, innestando nel suo nascondiglio, sorta di punto d’osservazione privilegiato e oscuro come la camera oscura del cinema dal quale guardare senza essere visti gli stralci laterali della belligeranza, un’astrazione della guerra che è un significante strabordante di significati al contrario concreti, esperibili, come la fame, come la sete, come quel momento di terrore in cui un cane inferocito ti sta puntando. Il centro focale è Anna, il suo sguardo di spiragli attraverso lo specchio sulle stanze dei bottoni, la sua capacità di sopravvivere cercando acqua e cibo dove non ci sono, la sua innocenza di bambina destinata a fare i conti con la morte, con le trappole per topi, con il veleno, persino con la vendetta, seduta ad ascoltare i lamenti del cane dell’esercito tedesco – reo di aver rischiato di farla scoprire e di aver sbranato il suo amato gattino unica compagnia – che soffre e muore dopo aver inghiottito la sua polpetta avvelenata. Anna’s war, sin dal titolo, è la “sua” guerra, quella da lei combattuta per sopravvivere all’interno del suo microcosmo simbolico, rappresentazione del conflitto bellico in tutta la sua materialità di solitudine e di dolore. Privo o quasi di dialoghi, e con quei pochi spesso volutamente incomprensibili nei cambi di lingua ulteriormente sottolineati dalla mancanza di sottotitoli e nella vacuità dei momenti che passano sotto gli occhi di Anna, il nuovo lavoro di Fedorčenko mette in scena la noia e la tensione della bambina, la sua paura e la sua innocenza nell’impossibilità di essere innocenti, la sua personalità e la sua capacità di adattarsi, fra i piccoli arredamenti della rientranza nella canna fumaria del camino in cui sistema la propria angusta nicchia e gli animali impagliati scuoiati per combattere il freddo con la loro pelliccia, fra i mattoni sfilati per avere un minimo di luce le vere e proprie strategie paramilitari per dare la caccia ai piccioni, prima attirandoli con brandelli di topo e poi cucinandoli dopo averli bloccati e uccisi con una coperta.
Fedorčenko, prendendo spunto dalla vicenda realmente accaduta a una bambina sopravvissuta da sola alla guerra scoperta per caso navigando su Internet, innesta in Anna’s war un paradigma di finzione che riflette sui conflitti nella percezione non solo del popolo inerme, ma di chi non può nemmeno avere l’età per provare a decodificare le coordinate politiche, può solo osservare e aspettare nella speranza che prima o poi, fuori, passi la tempesta. Paradossalmente, più Anna si inoltra notte dopo notte per le stanze del suo nascondiglio, più impara a organizzarsi per sopravvivergli, più l’edificio, luogo/non-luogo trasudante dei suoi significati, si fa stretto come un cappio, sempre più claustrofobico, sempre più asfittico e tetro nei suoi scheletri di animali e nelle sue trappole per topi, nei suoi fuochi accesi e nei suoi accoppiamenti selvaggi, nei suoi pianoforti ormai muti dei quali è bello immaginare il suono e nei suoi continui appuntamenti con la morte di uomini e animali – catene alimentari e indole dell’uomo alla violenza. Nei bassifondi dell’edificio, i laboratori con le loro formaline impolverate riportano a quell’abbandono culturale che la guerra inevitabilmente porta con sé, tanto che per i soldati occupanti l’unica utilità dello scheletro è farne una sorta di Albero di Natale di fronte al quale gozzovigliare, incuranti, ineducati, irrispettosi. Non dice una parola in tutto il film Anna, la straordinaria esordiente Marta Kozlova, 9 anni e un talento di strabordante emotività, eppure incarna tutta l’anima e tutto il corpo del nuovo lavoro del regista russo, il punto di vista soggettivo e oggettivo, il ruolo di narratrice con i suoi gesti e con l’espressività del suo volto, con il suo pragmatismo e con le sue lacrime, con la sua forza e con la sua personalità, con la sua continua e personalissima Resistenza agli eventi. A costo di bere la sua urina, l’acqua torbida dei pennelli, quella dei sottovasi, persino quella in cui sono stati lavati i pulcini appena nati, Anna va avanti, giorno dopo giorno, raccogliendo e sciogliendo la neve per berla, aspettando che il mondo sia di nuovo in grado di accettarla, e nel frattempo inventando stratagemmi quotidiani per tirare avanti, per nutrirsi, per non farsi scoprire. I giorni scorrono tutti uguali, fatti di solitudine e di paura, eppure tutti diversi, fatti di organizzazione e di nuove scoperte, con tanto di banchetto alcoolico dei soldati dalla cui tavola ancora imbandita trafugare cibo, acqua, persino una pistola che Anna non saprà usare e che anzi si farà strappare di mano, ma che aprirà all’unico sprazzo di umanità nella pietà del soldato che la vede e non la denuncia, capendo la sua situazione e lasciandola nella sua silenziosa solitudine.
Astratto e minimale, poetico e antibellico, straziante e profondamente etico, Anna’s war porta avanti con straordinaria coerenza e lucidità di sguardo il cinema umanissimo e sempre più indispensabile di Aleksej Fedorčenko, un cinema fatto, da First on the Moon a Angels of Revolution, passando per Railway, Silent Souls a Spose celesti dei mari della pianura, di tradizioni e di donne, di stratificazioni e di atmosfere, di messa in scena e di lancinante trasporto, in cui l’immagine è una ben precisa responsabilità morale non solo in quello che viene mostrato, ma anche in quello che si decide di tenere fuori campo, oppure al buio, nel nero, nelle palpebre abbassate di chi non può aprire gli occhi e nemmeno respirare, impegnato nell’orribile attesa che finiscano gli spari mentre, uno alla volta, stanno cadendo tutti gli affetti e si rimane soli. Fra pomodori, coppe, trucchi, sporcizia, verdure e spiragli di luce, Anna’s war procede incollato alla sua protagonista, dipingendo sullo schermo i suoi stordenti contrasti, i suoi riflessi e le sue seducenti sfocature mentre le rimane accanto, la segue nelle sue esplorazioni quotidiane e nella sua amarezza, volando lontano anni luce dagli abissi retorici spielberghiani dei cappottini rossi o dalle (inaccettabili) mistificazioni giocose che valsero l’Oscar a Roberto Benigni quasi schernendo l’Olocausto: Fedorčenko, al contrario, mai minimizza ciò che sta accadendo fuori dal nascondiglio e ancor di più dalle finestre, tanto che nemmeno la lanterna magica del cinema, con i cartoni animati che si sovrappongono alla carta d’Europa, riusciranno a strappare un sorriso alla sua piccola protagonista. La sua Anna è sempre perfettamente consapevole della portata di avvenimenti che, come vale per chiunque, sono molto più grandi di lei, ma sa anche che non bisogna mai smettere di lottare e reagire quotidianamente, ogni giorno, ogni ora, ogni istante. Fino alla strabordante potenza politica del finale, le bandiere sulla mappa che indicano le zone di scontro e gli avamposti militari nazifascisti spostate dal territorio sovietico a quello tedesco, come a voler allontanare la guerra, come a voler liberare la propria terra occupata, come a sfidare e sbeffeggiare apertamente il conflitto con la propria quotidianità, consci di poter sopravvivere, consci di potercela fare, consci di potersi rialzare ancora una volta. Consci di poter sconfiggere i nazisti, l’odio, la guerra. Consci di potersi liberare, prima o poi. Basta continuare a crederci, a combattere, a sopravvivere. A resistere, oggi come ieri, fino alla prossima Rivoluzione.
Marco Romagna