ANIMAL CINEMA (2017), di Emilio Vavarella
Non capita certo tutti i giorni di imbattersi in immagini girate da un granchio, da un polpo, da un orso, da una scimmia, oppure da un’aquila. Sono immagini casuali, rimaste intrappolate in qualche GoPro in giro per il mondo e poi in qualche modo caricate su YouTube. Sono le immagini con le quali l’artista giuliano Emilio Vavarella espande il suo studio nel rapporto fra esseri umani e tecnologie, travalicando l’uomo per tornare a un qualcosa di ancor più primigenio, non costruito, istintivo, ancestrale, e quindi di strabordante sincerità. Si chiama “Non-umano”, la microsezione di TFFdoc in cui i dodici minuti di Animal cinema trovano la loro proiezione al 35mo Torino Film Festival. Ma, a discapito del nome scelto, il concetto fondamentale non è affatto (rin)negare l’umanità, ma tentare di superarla, cercandola e trovandola in nuove forme specificamente animali. Quello che emerge dalle corse e dalle immagini a volte strisciate di Animal cinema è anzi una sorta di post-umano, nel quale la tecnologia delle videocamere entra in diretto contatto con la natura, con animali che non hanno la minima idea di cosa sia l’oggetto con il quale stanno interagendo, e che per questo ci giocano o cercano di fagocitarlo, lo trattengono e poi lo lanciano, o semplicemente vivono la loro vita, corrono e si arrampicano, volano e nuotano, ignari di cosa stia catturando l’obiettivo che nemmeno sanno di avere addosso. Ci sono i tentacoli della piovra, ci sono i denti dell’orso e del cane, ci sono le lingue dei giganteschi felini e i rami visti da un macaco. C’è lo stesso istinto animale della notte dei tempi che si focalizza su un oggetto di recente costruzione, lasciando deflagrare una sorta di creatività artistica inconsapevole che nient’altro è che il dispiegarsi della “propria natura”, del modo di essere, del modo di vivere, del modo di interagire con oggetti sconosciuti. Quegli stessi oggetti sconosciuti, figli di anni di studi e tecnologia, che si pongono come vertice del triangolo per il ritorno all’umano, con il montaggio che renderà fluido e apparentemente consequenziale questo aleatorio mosaico di registi post-umani. Del resto, anche il mondo in cui viviamo è a suo modo un dare una forma, un montaggio, un assemblaggio di differenti istinti, di differenti personalità, di differenti emozioni. Di differenti specie, tutte legate da una videocamera e da un suo utilizzo inedito, alternativo e in un certo senso disfunzionale, mai visto, e di sicuro non replicabile con la stessa franchezza da alcun immaginario registico.
Animal cinema è un collage di immagini non necessariamente chiare, ma senza dubbio coerenti nella loro assoluta purezza. Sono immagini provvisorie, non volute, lontane da qualsiasi possibile forma di messa in scena, sono immagini che nascono sotto l’acqua come nei cieli, nel caldo insostenibile del Botswana come nel gelo dell’Alaska, sono immagini che riemergono come un flusso costante, in(de)finito, molto più cinematografico di tanto cinema narrativo e non. Non è solo il puro esperimento del “far girare” un film a undici diverse specie animali, Animal cinema è molto di più. È un punto di contatto che annulla ere geologiche di evoluzione, possibile solo oggi grazie alle innovazioni tecnologiche iperversatili e ultraresistenti con cui gli animali hanno avuto (in)consciamente a che fare, e che documenta in realtà un qualcosa che non ha confini temporali, un qualcosa di eterno, un qualcosa che nessun umano potrebbe mai mostrare, ma che ogni animale, semplicemente essendo se stesso, può vivere. Animal cinema è la natura che si racconta dall’interno, svelando i suoi intimi segreti, la sua curiosità, la sua paura, la sua fame, la sua vitalità. La sua più profonda umanità e la sua più profonda bestialità, tanto ataviche da dover ricorrere all’extra-antropologico per poter emergere. Fra uomo e animali, attraverso l’uso della macchina e del mezzo cinema, si crea un’interconnessione che non è solo visiva, ma anche istintuale, emotiva ed emozionale, fatta di paesaggi e di bisogni, fatta di curiosità e di relazioni, fatta di repentini sguardi e spostamenti, fatta di continui cambiamenti di “regista”, di protagonista, di ambiente, di paesaggio con il quale relazionarsi e di modo di vivere, che sia l’animale in questione erbivoro o carnivoro, acquatico o piumato, peloso o corazzato. È un’interconnessione fatta, soprattutto, di continui rapporti con la macchina da presa, oggetto sconosciuto che restituisce la curiosità di chi ci si relaziona, di chi lo tiene fra le mani o fra i tentacoli, di chi lo graffia con gli artigli, di chi forse nemmeno si rende conto della sua esistenza, pur avendolo addosso, pur usandolo per creare. Dalla sabbia alle foglie, dal sole alla neve, dalle fauci alle faglie, Animal cinema è un film (im)possibile, esperienza visiva fatta di esperienze visive che apre a riflessioni di varia natura, sul regno animale e sull’umanità, sulla tecnologia e sul mezzo cinema che se ne serve, sul gesto artistico inconsapevole e sull’incontro fra specie diverse, quasi come se questo lavoro segnasse una linea di continuità fra una specie e l’altra, fino al ritorno, fuori campo, a noi uomini. Il cortometraggio di Emilio Vavarella è un film inafferrabile sull’inafferrabile, un film istintivo sull’istinto, un film extra-uomo sull’umano. Ed è un viaggio ipnotico, è un continuo rutilare, è un ritorno a Pangea ed è la personalità dell’immagine e di chi la gira. In fondo, solo il cinema può restituire tutto questo con questa sincerità, con questa forza, con questa chiarezza. Un cinema che, in questo caso, si è praticamente fatto da solo, colto nella flagranza e nell’indipendenza del suo stesso atto. Non possiamo, di fronte a simili immagini, che porci come spettatori, guardarle fino a nutrircene, lasciarci ipnotizzare, tornando a quella meraviglia primigenia e animalesca che poi è la stessa meraviglia primigenia e animalesca degli animali di fronte alla GoPro, quell’oscuro oggetto fatto un po’ a cubo e apparentemente indistruttibile trovato chissà quando nel mezzo del cammin di loro vita e poi abbandonato. Consegnando la loro intimità a chiunque abbia voglia di viverla per dodici minuti, o forse più. Oltre l’umano, nel più profondo dell’umano.
Marco Romagna