ANGELS WEAR WHITE (2017), di Vivian Qu

Angels wear white, “Gli angeli vestono in bianco”. Proprio come veste in bianco la gigantesca statua di Marilyn Monroe, impegnata nella caratteristica posa ad abbassarsi la gonna tratta da Quando la moglie è in vacanza, che si erge quasi come fosse un faro nei paraggi della spiaggia. Proprio come veste in bianco, nella fuga (probabilmente illusoria) finale, una delle giovani protagoniste dell’opera seconda della cinese Vivian Qu. Il senso è chiaro: le donne, tutte le donne, sono creature ingenue e indifese da proteggere, vittime delle angherie degli uomini che, dagli scranni del comando, impongono e costringono, schiavizzano e si viziano, commettono reati, rovinano le vite e vivono dell’impunità che il loro potere gli fornisce. Anche stuprando senza remore, anche emanando ordini e linee da seguire, anche umiliando apertamente le donne, magari innaffiandole in testa con la canna dell’acqua. Già questi (troppo) facili accostamenti, da soli, basterebbero a denunciare il mero (e pure un po’ retorico) film a tesi, netto passo indietro per una regista “promossa” dalla SIC, dove nel 2013 presentò l’ottimo esordio Trap street, direttamente al concorso principale di Venezia74. Laddove nel lavoro precedente l’utilizzo delle simbologie e delle metafore era acuto e necessariamente ambiguo, fatto di incontri lungo una mappatura geografica (im)possibile della Cina contemporanea, Angels wear white ricorre a simbologie scolastiche e non di rado grossolane, tese non tanto ad aprire un pozzo da scandagliare, ma alla pura rivendicazione dell’autodeterminazione femminile in una porzione sociale – quella della prostituzione minorile – che senza dubbio “merita” di essere denunciata e combattuta, contro la quale senza dubbio bisogna indignarsi e scagliarsi, ma ben altro discorso è riuscire a metterla in scena senza cliché e banalizzazioni, senza ampollose iperboli e tesi precostituite destinate a prevaricare la struttura filmica e narrativa.

Vivian Qu, questa volta, cade nella trappola da lei stessa ordita e costruita, inseguendo il realismo al punto di superarlo e lasciarlo indietro, calcando troppo la mano su una realtà di diseguaglianza sociale e sfruttamento, di bambine violentate da impunibili potenti, di quindicenni in fuga da casa alla ricerca documenti falsi, di fughe dalla reception dell’hotel incriminato per prostituirsi, di necessarie sostituzioni rigorosamente al femminile, di bugie e  di silenzi, di ricatti e di rossetti. Certo, l’afflato anticapitalista e umano del film nel mostrare le storture per avanzare le richieste di diritti è pienamente condivisibile, da difendere e da sostenere. Ma non basta per portare a casa un lavoro che sembra mancare di coraggio nella messa in scena e negli assunti, spesso troppo “facile” e pretestuoso nei suoi eventi e nelle sue simbologie, e in definitiva immaturo, superficiale e tutto sommato sessista, per quanto al contrario, nelle sue conclusioni girl-power. Non deve essere semplice fare film d’autore in Cina. In un Paese stretto nella morsa della censura, nel quale non si può esagerare con l’attacco alle istituzioni per non finire in una qualche lista nera – tanto che Wang Bing, tanto per dirne uno che pure non ha mai portato avanti attacchi frontali al governo ma ha la sola “colpa” di stare sinceramente dalla parte del Popolo, non è certo visto di buon occhio da Pechino. Tanto più, probabilmente, se il cinema d’autore lo si vuole declinare integralmente al femminile, dallo sguardo registico a una trama che prevede quasi sole donne, dai messaggi apertamente femministi al sottobosco sociale di prostituzione, alberghi a ore, fughe da casa e giustizia impossibile.

È una storia corale rigorosamente di protagoniste, quella messa in scena da Vivian Qu, in cui nessuna fascia di età, dalle divise scolastiche alle fughe in motorino elettrico, si riesce davvero a salvare dalla spirale che stringe le donne alla gola, dalle bambine che vengono sessualmente abusate come inizio di un incubo destinato a perdurare alle loro madri trascinate nel baratro, dalle giovani prostitute minorenni disposte a farsi ricostruire chirurgicamente l’imene per potersi nuovamente vendere come vergini alla ragazza giunta dalle campagne per sostituire la receptionist dell’albergo lubrico e provare a sopravvivere, fino all’avvocatessa che, nei punti morti delle indagini e nelle reticenze di chi è senza documenti e quindi deve mentire o per lo meno omettere per non dare nell’occhio, è l’unica che ancora crede nella possibilità di un minimo di giustizia. Gli investigatori poco possono di fronte a una telecamera di sorveglianza il cui filmato di quella maledetta notte è sparito, e in generale gli uomini nient’altro fanno che stare sopra in ogni scala gerarchica, in sostanza impotenti eppure ostentatamente arroganti, culmine di quella diseguaglianza sociale di cui la Cina di oggi ancora soffre. Vivian Qu, fra la centralità dell’hotel, l’adiacente spiaggia e il girovagare per le strade della città, gira indubbiamente “bene”, con talento, con un punto di vista ben chiaro. Cura a dovere la fotografia, rende le donne piccole come formiche negli ambienti ampi e atterrenti, e in alcuni casi riesce pure a tirare fuori dal cilindro sequenze realmente liriche e ancestrali fra sfioramenti e trucchi sul viso. Ma il suo Angels wear white stride, manca di mordente, si perde nella sua superficialità di fondo e nelle sue telefonate metafore, dimenticando quasi totalmente la tenuta narrativa e la necessità di provare a risolvere le storture anziché limitarsi a puntare il dito e atteggiarsi da vittima. Non è affatto, come taluni affermano, il peggiore film della Mostra, e anzi Angels wear white ha non pochi spunti di interesse e indubbiamente, nella sua logica, buone intenzioni. Ma rimane un film accademico, in sostanza già visto mille volte, privo di reale coraggio e originalità, privo di un messaggio che sappia andare oltre al semplice fallo di reazione. E, checché il film ne dica, non basterà certo abbattere la colossale statua di Marilyn Monroe per riuscire a guardare davvero avanti.

Marco Romagna