Non è una sola la caduta di cui studiare l’anatomia, in Anatomie d’une chute. C’è ovviamente la caduta (accidentale? suicida? o forse lo hanno ucciso?) di un padre e marito che, con la sua morte e le conseguenti incongruenze che ne faranno incriminare e andare a processo la moglie, dà il via alla narrazione, ma c’è anche la caduta di una famiglia che si disgrega come un castello di sabbia nei sospetti e nella tragedia, c’è anche la caduta di una coppia oramai tossica, c’è anche la caduta di una maschera di apparenze con cui fingere che andasse tutto bene, c’è anche la caduta di un muro di dissimulazioni e rispettabilità pazientemente costruito nel corso degli anni per nascondere e lasciare privati i segreti più intimi di tutta la famiglia. C’è anche la caduta di una donna, scrittrice di successo apparentemente irreprensibile e invece ora imputata pubblicamente screditata come fedifraga, infelice e bisessuale in un processo per un omicidio che giura di non avere commesso, che a prescindere da quella che sarà la sentenza non potrà che lasciare ombre e cicatrici indelebili sulla sua anima e sulla sua immagine. Tanto che interessa solo fino a un certo punto la verità, al film per il quale lo scorso maggio a Cannes è stata (un po’ generosamente, va detto) assegnata la Palma d’Oro alla quarantacinquenne francese Justine Triet, ora proposto in prima internazionale dalla 76ma edizione del Locarno Film Festival sugli oltre trecentottanta metri quadri dello schermo installato in Piazza Grande. Così come interessa, ma anche questa volta solo fino a un certo punto, la difficoltà nel cercarla e nel perseguirla, l’impossibilità di ricostruirla secondo criteri che siano realmente oggettivi e scevri di ogni opinione (pre)determinata. Ciò che sin dagli esordi muove la macchina da presa di Justine Triet è semmai il desiderio di esplorare il fondo delle dinamiche familiari e interpersonali, di immergersi nei lati oscuri della psicologia dei personaggi e dei loro rapporti umani, di penetrare l’ambiguità dei toni di grigio fra l’amore e il detestarsi, fra la dolcezza e la rabbia, fra il compromesso e il ricatto. Tanto nei litigi de La bataille de Solférino quanto nella psicoterapia di Sybil, tanto nell’attività forense di Victoria quanto ora, nella messa a nudo di una scrittrice alla sbarra fra rivelazioni e registrazioni, fra testimonianze e ricordi, fra insicurezze e omissioni, fra esperimenti e controinterrogatori. Non è un caso, in tal senso, che Anatomie d’une chute si apra con un momento – l’ultimo, si scoprirà ben presto – di palpabile tensione tossica del rapporto coniugale. Con l’intervista che la protagonista Sandra, cui dà voce e corpo una Sandra Hüller forse alla prova attoriale della vita, sta tentando di rilasciare a una giovane e avvenente reporter, salvo doverla interrompere a causa del progressivo alzarsi del volume della musica fino a diventare insostenibile, volutamente (?) disturbata e sabotata dal marito che nemmeno si palesa dal piano di sopra. Eppure Sandra, già di prima mattina vestita di tutto punto e con il suo bicchiere di vino in mano, non sembra affatto scomporsi né essere infastidita dal comportamento del coniuge, e anzi sin da subito lo giustifica sorridente parlando di come la musica gli serva per concentrarsi e lavorare, per poi congedare gentilmente la giornalista e ridarle appuntamento per un prossimo futuro. Se non fosse che poco dopo, rientrando a casa dalla sua passeggiata con il cane, il figlio undicenne e quasi cieco da quando aveva quattro anni trova il cadavere del padre in una pozza di sangue sotto alla finestra del solaio, ucciso da una ferita alla testa per la cui forma è impossibile, al momento dell’autopsia, determinare se la causa sia la caduta o un colpo con oggetto contundente. Il resto sarà l’indagine, con le domande e con le involontarie contraddizioni della madre e del figlio, con le prove balistiche lanciando decine di manichini dalla medesima finestra e con le più «ridicole» ricostruzioni, con l’emergere della registrazione di cui Sandra non sapeva nulla (pratica che si scoprirà in seguito essere diventata abitudine dell’uomo, anch’egli scrittore ma di fama ben minore rispetto alla moglie e bloccato dal momento del tragico incidente occorso al bambino, alla ricerca di ispirazione letteraria dalla quotidianità) di un loro litigio del giorno precedente, e poi con il processo da cui, fra le domande dell’accusa e quelle della difesa, emergeranno tutte le gelosie, le ansie e i rancori della coppia, tutti i momenti di crisi passati in camere separate e tutte le reciproche manipolazioni, tutti i tradimenti e tutte le ripicche, tutti i vecchi tentativi di suicidio dell’uomo e tutti gli sforzi per tenerli nascosti anche al figlio, tutto il reciproco incolparsi e ricattarsi moralmente rinfacciandosi ogni minimo aspetto della vita. Tutta la possibile memoria, di una madre, di un figlio e di tutti i possibili testimoni ed esperti, fino al riemergere di un ricordo decisivo (o forse no, forse è solo quello che serviva) per poter emettere la sentenza.
Il risultato è un film indubbiamente solido, dalle spalle larghe, probabilmente un po’ troppo lungo nei suoi 150 minuti che continuano a girare intorno allo stesso punto eppure complessivamente ben scritto e ancora meglio interpretato nel suo multilinguismo a cavallo fra il francese (che il personaggio di Sandra, tedesca di nascita, non ha mai voluto masticare a sufficienza) e l’inglese (con cui finirà ben presto per esprimersi anche in tribunale) parlato anche in famiglia come compromesso o forse come ennesima imposizione. Per un lavoro con cui Justine Triet, in passato autrice troppo altalenante e ancor più intrappolata nel “meccanismo” delle sue narrazioni, trova quella che è a oggi per distacco la sua migliore sortita. Un film profondamente innestato nella sua geografia, le montagne innevate vicino a Grenoble, e bene attento alla caratterizzazione di ogni personaggio principale, dalla famiglia ai legali, passando per il cane-guida fondamentale (cavia) per l’unico reale colpo di scena e per gli assistenti sociali incaricati di accertarsi che la madre non possa in alcun modo condizionare le testimonianze del figlio. Eppure, per lo meno a tratti, c’è qualcosa in Anatomie d’une chute lascia perplessi. Non tanto nella sequenza, seppure effettivamente alla lunga eccessiva fino alla perdita di credibilità, del litigio fra coniugi registrato di nascosto e poi esibito come prova in tribunale, e nemmeno nella sostanziale goffaggine degli approcci a vuoto di un avvocato da sempre innamorato della sua assistita. Il problema del film di Justine Triet sta nelle potenzialità ancora maggiori che l’autrice suggerisce e lascia inespresse, dal passaggio oggettivo-soggettivo, con gli inserti nel low-fi delle videocamere della polizia e dei telegiornali che vengono introdotti e poi non sviluppati, al rapporto in costante dualismo fra la vita e la narrazione nei libri semiautobiografici dell’imputata e nel continuo registrarsi per tentare di ritrovare lo slancio artistico del marito, di fatto liquidati con un sibillino e un po’ “facile” «il mio lavoro è coprire le tracce perché la finzione può distruggere la realtà». Perfino la relazione fra vedere e sentire, intrinsecamente incarnata dal ragazzino ipovedente e poi esperita dall’intera aula al momento della registrazione audio riprodotta in tribunale che diventa un vero e proprio flashback anche visivo, è di fatto una suggestione su cui il film non vuole soffermarsi a ragionare, e pure la soggettività (e quindi credibilità solo relativa, volendoci credere) della memoria, messa in scena con l’intuizione, questa sì geniale, di lasciare sul movimento delle labbra del padre la voce del figlio che racconta l’episodio, si estingue di fatto in una sola scena senza nemmeno volere diventare un reale oggetto di indagine. È per questo che Anatomie d’une chute, a differenza del magnifico Anatomy of a Murder di Otto Preminger al quale così evidentemente guarda sin dal titolo, non riesce realmente a universalizzarsi e a stratificarsi, a diventare paradigma o metafora di un qualcosa, ma si limita a immaginare e raccontare una storia sulla carta pruriginosa e invece in definitiva innocua e un po’ fine a se stessa, elusiva quanto si vuole ma priva o quasi di tangibile dolore, o per lo meno di reale partecipazione poetica nel delinearlo e trasmetterlo. Certo, rimane l’ottimo incipit che sin dai primissimi minuti immerge in un’atmosfera inquieta che quasi anticipa l’inevitabilità della morte, rimane la polvere tirata fuori da sotto il tappeto di un rapporto umano ormai consumato, rimane l’ambiguità di un vero che non riuscirà mai a dissipare gli ultimi dubbi residui e il retrogusto di falso, così come rimangono la buona fattura e l’eccellente direzione degli attori, l’atipicità melò di un thriller giudiziario e lo sfondamento di ogni residuo confine fra la sfera pubblica e quella privata. Elementi perfetti per una piacevole prima serata, in cui chiedersi per due ore e mezza se Sandra sia colpevole o innocente, spietata carnefice del marito oppure vittima di una persecuzione giudiziaria che ne calpesta il lutto, cambiando magari mille volte idea lungo l’evoluzione del dibattimento e la progressiva caduta di ogni suo filtro. Eppure a una Palma d’Oro, tanto più se vinta (pur senza alcuna “colpa”: a decidere sono i compromessi delle giurie) contro film straordinari, assai più coraggiosi e decisamente meno accomodanti come quelli di Aki Kaurismäki, Nuri Bilge Ceylan e Catherine Breillat, ma si potrebbero citare anche Bellocchio, Todd Haynes e Kore-eda (senza contare i tanti inspiegabilmente esclusi dal concorso, da Takeshi Kitano a Victor Erice), sarebbe lecito chiedere qualcosa di più. Forse anche un bel po’ di più.
Marco Romagna