“I live where I’m left
On the shelf like the rest
And the epilogue reads like a sad song
Please pick up your camera
And use me again
And build me a time
When the characters rhyme
And the story line is kind”
Ibiza Bar – Pink Floyd
Soundtrack from the film More, 1969
L’ultimo film di Barbet Schroeder è un oggetto misterioso, una macchina del tempo che pugnala ai fianchi, nelle rotture della Storia che spesso ci rendono partecipi tutti, anche inconsapevolmente. Proprio per questo motivo, è impossibile parlare di Amnesia fermandosi al guardare il film, perché non è altro che l’epilogo -o l’apparente chiusura- del percorso umano ed artistico di un autore che ha sempre camminato affianco ai binari del secondo novecento, cercando di definire le ripercussioni che esso stesso ha sviscerato sulla società, in particolare su quella giovanile, tra sussulti e fratture. Un percorso tortuoso e pieno di difficoltà, che spesso Schroeder stesso non è riuscito ad interpretare al meglio, ma che in quest’ultimo film, come nel gemello More, riesce magnificamente ad interrogarci/si.
Correva l’anno 1967, la summer of love condensò in pochi mesi l’esperienza di una generazione intera. Esordiscono gruppi come i The Doors, i Soft Machine, i Velvet Underground e soprattutto i Pink Floyd, che all’epilogo degli anni Sessanta scrivono due tra le più intense colonne sonore di sempre, l’immagine delle cose che esplodono nel finale di Zabriskie Point, e l’intero commento di More. Ma se la collaborazione con Antonioni risulta sempre più complessa, Schroeder affida proprio alla musica la contestualizzazione più assoluta e radicale di un film così generazionale. Il Sessantotto del Cinema (la famigerata Cannes del 1960 ne fu probabilmente il detonatore) era già esploso nelle varie nouvelle vague in giro per il mondo, mentre quello sociale e giovanile era già pressoché finito. All’alba del 1969 quella forza propulsiva pare essersi definitivamente lacerata. Proprio da quel contesto nasce More, dall’esigenza di resistere nel tempo in un fortino di libertà, erigere ed esigere uno spazio in cui portare avanti quella rivoluzione di costume così imponente, fino alle conseguenze più estreme. Pochi mesi dopo erano gli anni Settanta, ed il riflusso spazzò via in attimo tutta quella serie di esperienze, così estremamente legate alla tensione di libertà come spesso all’autodistruzione.
Pare far uno (o due) passi indietro Barbet Schroeder, per una riconciliazione (?) con il proprio cinema e con quella Storia che va a rappresentare, nei suoi accessi più lontani, nei suoi scarti più vivi quanto drammatici. Ibiza, un paradiso distante, i sincopati ritmi anni novanta si sostituiscono alle caleidoscopiche fughe psichedeliche. Jo (Max Riemelt) è un ragazzo, viene da Berlino, è un musicista che cerca il luogo più fertile per la nuova rivoluzione dell’elettronica. Abita in un casa bianchissima, quasi cubica (che la madre di Schroeder acquistò nel 1950) e vorrebbe lavorare nella discoteca cult “Amnesia”. Anche Martha (Marthe Keller) vive da sola, di fronte al mare, da quarant’anni; nelle sue rughe ha molto da nascondere, una presenza quasi fantasmatica nel suo rinnegarsi. In More la figura di Martha sarebbe senza dubbio la dolce e comprensiva Estelle, decenni dopo l’eroina e le derive acide, con la consapevolezza della vita come dell’identità; Jo e l’autodistruttivo Stefan sono invece legati dall’apparente tensione verso la scoperta e la curiosità, ma laddove nel primo il ritorno all’ordine ed il tentativo di comprensione saranno la propria salvezza, il secondo trovò solo nell’autodistruzione la via d’uscita.
Una notte, Jo bussa alla porta di Martha. Da lì la deriva dei sensi e delle emozioni, i due si frequentano sempre di più, confrontando i propri suoni come giocando continuamente con le parole; le affinità (int)elettive germogliano in quei grumi di sonorità, come in uno scambio di conoscenze e scoperte tra età ed epoche dialetticamente in eterno confronto. Quando i genitori di Jo arrivano ad Ibiza, ecco il cortocircuito. Martha (anche lei tedesca, a suo modo vittima della guerra) è ancora legata alla sua cultura di appartenenza, ma non parla più la sua lingua madre da quasi mezzo secolo, espressione culturale quanto politica della coscienza degenerata di una nazione; in questo vortice il nonno di Jo (Bruno Ganz) si scopre collaborazionista. Tutto quell’impianto di dialogo crolla, la Storia si fa ferita viva, percepita in ogni movimento e sguardo. In quel taglio profondo dello spazio cinema ecco il dualismo etico tra il silenzio imposto dalla ricostruzione e la necessità di romperlo con violenza, il revisionismo e l’indifferenza continuamente complici. Quella riconciliazione rimane così eternamente provvisoria, modulata e dispersa tra lingue e linguaggi che trasudano incompatibilità, di chi nella guerra sceglie una parte e di chi forse non ne sceglie l’altra.
Quella casa, dell’infanzia di Schroeder e dell’amore folle di More, è lo spazio in cui il grande autore tedesco definisce i limiti e le rotture del proprio tempo, dalla controcultura del Sessantotto fino alla conversione seguente al crollo del Muro. Le trasparenze continue della sublime fotografia di Tovoli (in 8K) svelano questa continua consapevolezza della memoria, come la stratificata messa in discussione della dopo-storia ai tempi della ricostruzione. Dove nel romanzo di formazione sessantottino lo spaesamento e l’impossibilità di dare ancora un senso umano a quella frattura crea il degenero e la dissolvenza nei paradisi artificiali dell’eroina, in Amnesia è proprio negli scarti linguistici la frattura della Storia e l’impossibilità dell’accettazione di essa. Schroeder per andare avanti guarda indietro, in quell’isola in cui negli anni Sessanta si rifugiavano nazisti e fascisti accolti dalla dittatura di Franco (e presenti in More), pone lo sguardo ancora sul Terzo Reich, sulla Germania Nazista, sulla vita nei campi di sterminio; come un nuovo e contemporaneo Syberberg costruisce una narrazione solo per analizzare dialetticamente la coscienza possibile di una nazione oggi, protagonista quasi despota in un’Europa che la Storia stessa ha spesso declinato alla sconfitta; come un pop(olare) Straub accetta la durezza dello scontro in cui la traduzione interlinguistica e testuale provoca la nascita di un immagine, quella della determinazione, della scelta di campo. Le domande si infittiscono, la continua messa in discussione della memoria e della sua fallibilità parte proprio dal punto di vista, proprio da dove nessuna risposta sarà data.
Ennesimo piccolo ed intimo film, splendido quanto necessario nel definire fratture difficilmente sanabili nel presente, come esperienze umane che nei limiti del passato possono insegnare una possibile coscienza del futuro. Sempre in bilico tra (auto)finzione e Storia, Schroeder mette in gioco la stessa macchina cinema, sul crinale sempre scivolosissimo dell’esperienza personale presente e simbolizzata all’interno della finzione, come nel tentativo di (ri)definire la realtà delle cose attraverso il dialogo. L’apertura e la chiusura mostrano Martha osservare nella sua senilità il presente ed il futuro, oscuro presagio di colori raffreddati e limpidissimi in contrasto acceso contro i bianchi sovraesposti della scogliera. Quella trasparenza vi(si)va, potrà mai essere quella della stessa profonda verità sul nostro passato? Un romanzo della vita e della Storia (nel) cinema, una vertigine impressionista e sinestetica sullo stare qui, un’opera quanto mai personale e affascinante nella sua soffusa dialettica dei contrasti, come nella resistenza quotidiana contro l’oblio, l’Amnesia. Eccolo, il titolo. Non tanto il locale dove Jo troverà la sua affermazione personale e musicale, ma quello spazio della mente in cui il tempo corrode e si sedimenta strappandoci eterni barlumi di coscienza, anche a distanza di quarantacinque (brevissimi) anni. E ancora di più.
Erik Negro