AMMORE E MALAVITA (2017), di Marco e Antonio Manetti
I fratelli Manetti meritano il concorso di Venezia, perché sono fra i pochi autori italiani in grado di muoversi nel genere canonico e consolidato (più d’uno, a dir la verità, nell’opera che propongono quest’anno, Ammore e Malavita, commistione di gangster movie e melodramma amalgamati nel calderone del musical in chiave neomelodica, un neomelodico composito, con felici ambizioni crossover, visto che attinge alla canzone classica napoletana quanto alle hit anni ‘80) e contemporaneamente esprimere una personalità riconoscibile, solida, un’idea di messinscena asciutta, senza fronzoli, di prezzolato mestiere, finalizzata allo scopo nobile del racconto senza cedere alle lusinghe dell’estetismo a buon mercato.
Ma c’è anche da dire che Ammore e Malavita è un film così coraggiosamente aderente al milieu napoletano e napoletaneggiante che il rischio del massacro critico dopo la proiezione in concorso è dietro l’angolo: una collocazione fuori concorso sarebbe stata una scelta immeritata e ingenerosa, ma (probabilmente) non avrebbe generato le incomprensioni cui invece il film andrà incontro. Il rischio, infatti, è che l’operazione affettuosa e allo stesso tempo lucidissima dei fratelli sulle convenzioni consolidate della canzone e del cinema non venga colta dallo spettatore non abbastanza appassionato o esperto di certi aspetti “local”, e che possa essere scambiata solo come gesto kitsch e ridondante sugli stereotipi del racconto, dell’immagine, delle musiche, finendo nel cinico tritacarne delle stellette e degli exit poll all’uscita dalla sala.
Il film dei Manetti, al contrario, è un’opera profondamente ambiziosa, impegnativa sotto tutti i punti di vista, per la quale il bellissimo Song ‘e Napule, che l’ha preceduta con felice accoglienza di pubblico e critica, sembra essere stato alla stregua di un’anticamera: due ore e dieci di racconto multilineare, una schiera nutrita di personaggi coinvolti e ciascuno fortemente caratterizzato, acrobazie cronologiche nel percorso narrativo.
Ammore e Malavita comincia, infatti, con un funerale, con un morto che canta, con una Claudia Gerini (apparentemente) vedova piangente, che invece è l’architetto quasi geniale di un piano alla 007 (dichiaratamente alla 007: il riferimento conclamato in sceneggiatura è Si vive solo due volte) insieme al marito Carlo Buccirosso, boss meschino e memorabile, il re del pesce e padrone di tutto il pescato della zona nord di Napoli, stanco di dover costantemente scappare per nascondersi e desideroso di una vita lontano da tutto e tutti, solo con l’amatissima moglie al suo fianco. Amatissima moglie, per inciso, che meriterebbe di finire nel palmarés di questo festival, ma anche qui la faccenda si complica: una giuria internazionale quanto potrebbe apprezzare l’incredibile lavoro filologico e interpretativo che la romana Gerini ha compiuto su una lingua che non le appartiene, il napoletano, senza sbagliare un accento, un’intonazione, un gesto, un atteggiamento?
Il piano dello scambio di cadavere, comunque, apparentemente perfetto, finisce con l’essere scoperto dall’infermiera Fatima, di cui il boss chiede la soppressione ma poi viene a galla che è stato l’amore giovanile e mai dimenticato del sicario prediletto del boss stesso, Ciro Langella, che si riconcilia con la vecchia fiamma in un corridoio d’ospedale al suono (e alla coreografia) di una geniale cover neomelodica di What a feeling. Prima dell’azione più pura, dell’incusione vera e propria nel cinema di genere, al quale i Manetti ben volentieri ritornano con invidiabile tenuta narrativa e con cura e gusto per la caratterizzazione della loro Napoli.
In questo film, solidamente strutturato su musiche e dialoghi di ferro, un altro punto di forza sono le location: c’è il travelling iniziale memorabile che sorvola il rione Sanità e culmina nella basilica di Santa Maria eponima, c’è il cimitero delle Fontanelle, c’è addirittura Scampia che diventa provocatoria occasione per esorcizzare in una canzone i pregiudizi e gli stereotipi gomorreschi, e poi c’è il centro storico, ci sono le perle dell’hinterland, c’è il porto antico di Torre del Greco, e ci sono le calette nascoste nei meandri della costiera.
Inoltre, i Manetti bros hanno anche meriti indiscutibili nella scelta del cast e nell’utilizzo di volti, voci, personaggi noti: oltre ai citati Buccirosso e Gerini, c’è un grande Rais a interpretare il sicario/nemesi di Ciro Langella, ma fa macchia Franco Ricciardi, braccio destro del boss ed erede designato alla guida dell’impero ittico: lo scopriamo, in Ammore e Malavita, attore consumato, esempio più unico che raro di cantante neomelodico impegnato, che vanta un gran numero di hit famosissime ma è anche componente della big band Terroni Uniti, un mega-gruppo che riunisce artisti napoletani diversissimi fra loro uniti – appunto – dalla lotta politica portata avanti con le canzoni.
È, per finire, un film da vedere e sostenere per più motivi, Ammore e Malavita. Molto più di tante altre opere che, al suo cospetto, sono come – citiamo la battuta più bella del film – i pomodori sullo spaghetto alle vongole: non servono a un…
Elio Di Pace