AMERICAN SNIPER (2014), di Clint Eastwood
To shoot, in inglese, è sia “sparare” che “girare”. E Étienne-Jules Marey, negli anni ’80 del XIX, diede inizio all’avventura del pre-cinema con uno strumento in grado di immortalare 12 immagini al secondo e a cui venne dato il nome di “fucile ottico”.
Una manciata di suggestioni per introdurre la vicenda di un soldato. Una macchina da guerra micidiale, come può essere stato Achille al suo (non) tempo (e al pari di Achille, Chris Kyle, il cecchino più letale della storia dell’esercito statunitense, ha il suo rivale-riflesso nel campione olimpico siriano di tiro a segno, trasformato da Al-Qaeda in un angelo sterminatore), ma è anche un po’ Ettore, un soldato alle prese con il consueto ripresentarsi di Andromaca alle Porte Scee, che gli intima di “non andare”, ma lui invece “deve andare”. Anzi, “vuole andare”, ma di questo sensibile scarto ha una consapevolezza ancora in divenire. Infatti, in tenda dice al commilitone “Dio, la famiglia, la patria”, e si sente replicare “hai anche un Dio?”. È lì che cambia qualche cosa, intimamente, e in maniera decisiva, perché Kyle sfronda la sua mente – e il film, va da sé – dei coinvolgimenti politici, delle implicazioni globali del suo gesto militare, per concentrare tutto nell’agone del campo di battaglia. È molto diverso, Kyle, dal cecchino – sicuramente ricorderete – interpretato da Barry Pepper in Saving Private Ryan (di Spielberg, che avrebbe dovuto dirigere American Sniper ma nell’estate del 2013 abbandonò il progetto), il quale, sparando da un campanile, sussurrava al crocifisso che portava in petto di essere uno strumento nelle mani del Signore. Niente di tutto questo. Kyle millanta idealismo, ma senza convinzione, tant’è che basta poco alla moglie per zittirlo, e “The Legend” è intimidito e visibilmente imbarazzato dalle manifestazioni di conquistata celebrità cui lo sottopone il ritorno alla vita civile. Per lui conta solo quello che c’è nel mirino. Volendo portare alle estreme conseguenze il tutto, potremmo dire che per lui conta l’immanente, l’hic et nunc che il fucile e il binocolo gli segnalano. Egli è irriducibilmente ridotto a un uomo che ha il solo compito di prendere delle decisioni importanti, da solo e in fretta. E lo fa. E lì si esaurisce il suo agire. “L’obbligo etico che sente il protagonista del film nei confronti del proprio paese, si trasforma in una sorta di autoesclusione dal mondo”, ha scritto Samuele Sestieri, un caro amico che i più conosceranno con l’alias “Schermo Bianco”.
E questo ci conduce a Clint. Perché per lui, che pure è stato micidiale assassino per Leone nonché l’ispettore Callaghan per Siegel, conta solo “il campo di battaglia” del Cinema, che è il set. Poi certo, noi siamo liberissimi di dargli del fascista e del guerrafondaio, ma non credo che a lui importi, e non credo che a noi faccia gioco. La missione di Clint non è fare sermoni o confezionare discorsi per i repubblicani al Congresso, ma piuttosto portare a casa quei fantasmi che passano attraverso la loupe della macchina da presa – qui, come sempre, tra le fedeli braccia dell’affezionato Tom Stern, che ha realizzato uno dei momenti più eccelsi della sua carriera con la scena della tempesta di sabbia. Storm, ma piuttosto Sturm, nel senso tedesco di tormenta che coinvolge anche lo spirito. L’inquadratura cruciale è quella conclusiva, in cui giacciono sul suolo, sepolti dall’impeto della Natura, il fucile e la bibbia di Kyle (ancora quella famosa conversazione in tenda col compagno d’armi, che gli chiede ironicamente se quella bibbia sia antiproiettile), le vestigia dell’imbattibilità, di cui ora si è spogliato in via definitiva.
“Tutto quanto c’è da sapere sul film sta nella precisione delle inquadrature e della messa in scena”, scrive Giona Nazzaro.
Questo è, infatti, American Sniper di Clint Eastwood.
Elio Di Pace