AMERICAN HONEY (2016), di Andrea Arnold
«Come on and open up your heart,
Come on dream on, dream baby dream»[Dream Baby Dream dei Suicide, cover di Bruce Springsteen]
È arrivato il giorno cannense anche di Andrea Arnold, autrice inglese che si cimenta con un road movie girato nel cuore della più becera, problematica e bifolca provincia americana (siamo nel Kansas, nell’Iowa e nel Dakota). Protagonista è Star (Sasha Lane, al debutto, come tutti i ragazzi che compaiono nel film, reclutata dalla regista in un ristorante texano in cui lavorava come cameriera), e il titolo è American Honey. Co-protagonista è Shia Labeouf, in una prova da manuale del grande figlio di puttana. Star rovista nei cassonetti per trovare da mangiare, ma si imbatte nella colorita combriccola di sbandati venditori di riviste porta a porta, capeggiata dalla matronale Krystal e dal suo toyboy Jake (Labeouf). Li segue, è invisa a lei ma attratta da lui, a suo agio in questo nuovo lifestyle ma continuamente assalita da dubbi, in maniera ondivaga attraversano il suo volto fiammate di joie de vivre e momenti di riflessione che potrebbero addirittura tradire il pentimento. Insomma, stiamo addosso a lei, che faccia sesso, baldoria o che stia seduta a riflettere, interrotta solo dal pacifico ma tesissimo incontro con un orso.
A noi il film di Andrea Arnold è piaciuto, nonostante la mancanza effettiva di passi avanti nel suo itinerario autoriale: fin dalla prima inquadratura già è chiaro quale sarà il registro, già sappiamo che vedremo un film di inquadrature a mano, in un formato ristretto (il quattro terzi) che rende più dinamici i margini del fotogramma, e che ovviamente “stringe” sui personaggi, ce li fa toccare, attinge a piene mani dalla grammatica del documentario. Nulla di nuovo, è un linguaggio da cinema indipendente che ormai non stupisce più, eppure certe abilità indiscusse della Arnold hanno avuto il loro risalto: è lecito il sospetto della prolissità, il film talvolta dà l’impressione di essere un musical, tanti sono i momenti in cui vediamo il gruppetto alle prese con la robaccia commerciale che passa per radio, alcuni di questi senz’altro evitabili, eppure alla fine tutto torna, perché American Honey si presenta come un dilatatissimo rondò, il cui tema è la protagonista Star, e ogni viaggio da un posto all’altro rappresenta l’inizio di un nuovo episodio, e ogni episodio ha la sua variazione, il suo colore nuovo, il suo strumento aggiunto o sottratto.
La Arnold ha un senso della narrazione peculiare, perché è bravissima a tratteggiare delle scene madri, risolte anche con pochi cenni, con inquadrature sporche, allusive, scarsamente connotate, insomma, come se creasse dei bozzetti visivi, dal tratto veloce, ma incredibilmente d’impatto. Il film è impreziosito in ogni dove da momenti simili, su tutti ricordiamo il già citato incontro con l’orso, un momento di intimità di Star alla luce di una raffineria di petrolio lontana, la visita in casa di una coppia tossicodipendente e dei suoi figli. American Honey, come pregio ulteriore ha quello di riuscire a pervenire a una straordinaria autenticità senza rinunciare al gusto della narrazione o a slanci poetici, senza obblighi nei confronti di un genere o di un linguaggio: in questo senso ci è sembrato un ritratto pertinente di certa umanità e certi luoghi statunitensi anche più di quanto facciano, programmaticamente, gli ultimi film di Minervini, con vitalità che traspare da ogni fotogramma, tra un ballo in supermercato sotto le note di Rihanna e un breve sing-along a ritmo di Bruce Springsteen che coverizza i Suicide.
American Honey, infine, è un film che dà in più punti l’impressione di essere nato spontaneamente, in maniera sorgiva non solo dall’occhio della regista ma anche dall’iniziativa dei ragazzi che ha scelto: il sospetto nasce dai titoli di coda, insoliti, in cui a film by è seguito dall’elenco dei ragazzi, in ordine sparso, e poi di tutta la troupe, senza l’indicazione dei ruoli. E da questa grande lista, l’autrice si è esclusa.
Elio Di Pace