AMERICAN DHARMA (2018), di Errol Morris
Il primo commento di tanti – quasi tutti – coloro che hanno visto l’ultimo film di Errol Morris è stato: era giusto farlo? Ci torneremo. Dare voci a personaggi del calibro di Steve Bannon è, in questi giorni, assai contraddittorio per vari motivi, ma questo Morris pare saperlo. Appare come un percorso assai coerente il suo, da The Fog of War su McNamara a The Unknown Known con Rumsfeld, nel tentativo di interpretare pensieri e derive di uomini fondamentali per il Novecento americano. Ma, a differenza degli altri due, quest’ultimo American Dharma lavora su un’urgenza, su qualcosa che oggi pulsa come carne viva, non solo nel continente a stelle e strisce ma in tutto il pianeta (a cominciare ovviamente dall’Europa). Anche per questo il film, documentario declinato più che mai nelle forme di un thriller di inquadrature sghembe, riferimenti archivistici, musiche incalzanti e scavalcamenti di campo, assume un carattere diverso dai precedenti, forse meno libero e interessante nel porre una riflessione dialettica, ma (ahinoi) possibilmente profetico su quello che succederà a breve negli strati della società che le vecchie elìte non hanno saputo interpretare. Ed ecco che, alla domanda iniziale, dovremmo rispondere in maniera assai più complessa, problematizzando il fatto che non si tratta più di tornare su prospettive carsiche della Storia che hanno modificato irrimediabilmente il nostro passato, ma di materia che arde ogni giorno in maniera diversa, di movimenti improbabili (e non decifrabili a priori) della barbarie di un’umanità sempre più vicina al collasso e dunque pronta a ferire con sempre più facilità se stessa. Ed è per questo che un film intrigante, interessante, buonissimo, molto al di là delle sue intenzioni, mostra l’altra sua faccia: quella del film pericoloso, che potrebbe essere frainteso e paradossalmente alimentare la mitologia di Bannon.
Bannon è un grande appassionato di cinema – tanto da esser stato produttore e pure autore di film di sostanziale avanguardia reazionaria (anche se evidentemente non dovremmo semplificarli così – qui per chi vuole approfondire troverete Generation Zero) – ed elabora con Morris un’impalcatura filmica per definire le sue teorie. Twelve O’Clock High (1949) è la chiave d’accesso, in un certo senso, dell’immaginario bannoniano; non tanto per il valore del film in sé, ma nel tratteggio del generale aviatore (Gregory Peck) come un personaggio complesso e sofisticato, disposto a tutto per concretizzare i suoi pensieri. Così sarà per The Searchers, The Man Who Shot Liberty Valance, The Bridge on the River Kwai. Bannon guarda ai lavori di Ford e Lean come a quello di King, ovvero alla caratterizzazione dei personaggi maschili, spesso outsider incompresi, che riescono a salvarsi solo per l’attaccamento a una propria missione quasi metafisica. Strana visione ideologica, quella dell’analista americano, tanto da aprire anche possibili discorsi sulla percezione di un film legato unicamente al comportamento e alla personalità dei suoi soggetti; un percorso che affascina e stordisce, al di là di tutte le semplificazioni che spesso usiamo per ridimensionare una deriva della società che facciamo ancora fatica ad accettare. Emblematico è il discorso legato al Falstaff di Welles, metafora dal suo divorzio da Trump vissuto non come un tradimento e un abbandono, ma come la naturale conseguenza per aprire alla prosecuzione della sua missione. La necessità del recidere un percorso quando giunto a compimento, l’esigenza di lasciare agli altri ciò che si è fatto assieme, l’idea che ci sia ancora molto da lavorare e quindi congedarsi senza troppi rimpianti. Una rivoluzione permanente dunque, alla rovescia. Ecco il senso della ricerca di Morris, questa navigazione a vista intorno all’iceberg Bannon per cercarne tracce da desumere prima che possibili verità.
Proprio qui sta la criticità del film, il modo in cui sarebbe corretto decifrare e contestualizzare le parole di Bannon. Lo stesso Morris si trova in difficoltà, non solo una volta (la più esemplificativa è quella del voto alla Clinton durante le primarie democratiche da parte dell’autore, ammettendo che Sanders sarebbe stato osso molto più duro e ricevendo come risposta la diretta paura di Morris di fronte alla follia espressa da Bannon e Trump), e spesso pare arrancare rispetto alle provocazioni dell’analista. Più volte si sofferma sul fatto che il media oramai rappresenti il messaggio, chiave del successo di tutta l’operazione Breitbart, della campagna elettorale di Trump e del tentativo di esportazione futura. La tecnica e la metodologia politica di Bannon sono, molto al di là delle sue opinabili/pericolose/stigmatizzabili idee, mirabili: risponde alle accuse con altre accuse, sposta continuamente il piano del discorso, si mostra a tratti come docile e ragionante mentre in altri è quasi posseduto dalla sua furia iconoclasta. Il bisogno dell’identificare un nemico, la fede cieca in una teoria e lo scetticismo nei confronti di tutto il resto. Bannon su questi punti pensa alla sua rivoluzione che dalla viralità della rete deve pian piano prendersi strade e piazze ma soprattutto cabine elettorali; la sua intermedialità è quella che attraversa il film, la destrutturazione di un’immagine ricreata sulla problematicità della forma (cinema classico e giornali, siti web e statistiche, ma non solo) che diventa una specie di conversazione con un vampiro di cui conoscevamo unicamente il nome. Quello che rimane, nelle oltre sedici ore di girato, non può assumere la forma di un ritratto e nemmeno di un’intervista, ma appare più problematicamente quasi come una dichiarazione d’intenti che poco lascia alla riflessione, come altre volte successo nel cinema di Morris.
L’hangar – del set ricostruito – in fiamme nel finale è il simbolo del lavorare sulla forma prima che sul contenuto, nell’evoluzione di un’idea a metodo che trova in una distopica distruzione il combustibile per la ricostruzione, quella dell’alba di una nuova civiltà quanto mai fosca. E l’immagine che fa? Diventa spettatrice di se stessa, strumento fondamentale di ogni rivoluzione e di ogni reazione, spazio sempre più necessario – quasi terreno di scontro e. allo stesso tempo, campo di battaglia per chi vuole combattere nuove lotte (anche in suo nome). Verrebbe quasi naturale, specialmente vedendo questo film fuori concorso a Venezia oggi, nel 2018 italiano di inquietanti “cambiamenti” gialloverdi, associare Bannon a personaggi del calibro di Farage, Salvini (con il quale Bannon si è incontrato proprio in questi giorni al Lido) o la Le Pen, ma l’epopea di Bannon è assai più complessa e indecifrabile. Questo è, in fondo, il suo American Dharma dove destino, fortuna e dovere concorreranno a un obiettivo ancora non del tutto chiaro perché oscurato dalla proposizione principale, rappresentata dalla diffidenza assoluta nei confronti dello stato di cose attuale. Come se l’immagine potesse costruire una politica e non raccontarla, radicando così l’opposizione e il ribaltamento di un rapporto quanto mai pericoloso e degenerato. Un nuovo mondo probabilmente è molto più vicino di quello che pensavamo, e con esso forse la stessa estinzione di una pratica di pensiero immune dalla propaganda contemporanea. Una non esclude l’altra, anzi il rapporto causale sembra tutto fuorché casuale. Non ci resta che prenderci i pop-corn e godercela al cinema, fino a che siamo in tempo; anche la fine appare sempre più prossima
Erik Negro