ALMOST DEAD (2016), di Giorgio Bruno
Non è mai bello risvegliarsi dopo aver sbattuto la testa privi di memoria. Soprattutto quando, subito fuori dall’abitacolo dell’auto con la quale si è appena avuto il misterioso incidente, imperversa un’apocalisse zombie. Basta un morso o un graffio per, inevitabilmente, trasformarsi in uno di loro, per entrare nel limbo della morte-non morte, per vedere il corpo che cambia in attesa della prima morte dopo la quale, ancora, essere “quasi morti”, Almost Dead. Ma tutto questo, Hope, la protagonista, non se lo ricorda.
Seppur girato in inglese e destinato, a causa della cecità distributiva italiana nei confronti dei nostrani film di genere, a un mercato principalmente estero, l’ultimo parto creativo di Giorgio Bruno entra di diritto in quel sottobosco nostrano inspiegabilmente relegato al di là dei margini, invisibile o quasi per i non addetti ai lavori. Destino oltremodo ingeneroso per un film come Almost Dead, atipica rivisitazione dello zombie movie che parte dai canoni di lentezza e dal sottotesto politico romeriano per, complice la necessità di adattarsi al basso budget, lavorare per sottrazione, riducendo – letteralmente – all’osso i personaggi e girando quasi l’intero film, in totale rispetto delle unità aristoteliche, in un’unica location: una notte, un bosco, un’automobile incidentata, una donna. Presentato per la prima volta al Trieste Science+Fiction 2016 e ora al Future Film Festival 2017, a latere ma legato a doppio filo con il Focus Apocalissi a basso costo che nei prossimi giorni porterà sugli schermi bolognesi, fra gli altri, lavori di Federico Sfascia, Sebastiano Montresor, Eros Puglielli e altri registi di culto per i pochi che riescono ad avere accesso alle loro opere, ma ingiustamente ai limiti dell’anonimato per quanto riguarda i grandi palcoscenici, Almost Dead destruttura l’horror e lo configura in qualcosa di nuovo, più intimo. Le sequenze degli attacchi zombie nella notte fra gli alberi sono indubbiamente ben orchestrate, con una passione artigianale nella resa degli effetti speciali e delle movenze, ma non è l’aspetto puramente orrorifico a interessare Bruno, che con Almost Dead si interroga piuttosto sul momento della trasformazione, quello dell’ineluttabilità del destino, quello della perdita delle speranze. Quello della telefonata in cui comunicare che “Sono stata morsa”, e poi quello della corsa contro il tempo per cercare l’antidoto. Ciò che, nel corso degli eventi dentro e fuori dall’auto e nelle ripetute telefonate di Hope con colleghi e familiari davvero emerge, è un (melo)dramma di coscienza ben più che di paura, è una riflessione sulle responsabilità, sugli affetti, sulla difficoltà di ammettere un proprio tragico errore: solitudine, morbo, sensi di colpa. Capitalismo.
Non è certo un caso che la smemorata protagonista, che si scoprirà in seguito essere (stata) proprio la dottoressa in grado di sintetizzare l’antidoto per l’epidemia e che ora si risveglia legata e imbavagliata in un’auto dopo un incidente, si chiami proprio Hope, speranza. La speranza fino all’ultimo respiro, o forse la speranza vana. Non ricorda il suo nome, non ricorda la sua professione, non ricorda nulla dell’epidemia, nemmeno ricorda di essere madre. Non ha idea del motivo per cui sia stata rapita, e non ricordando nemmeno l’origine dei mostri che assediano l’auto non si fa problema alcuno a lasciare al suo posto, sul sedile del guidatore, il cadavere della donna che l’ha sequestrata. Il telefono cellulare è la sua unica finestra sul mondo, la sua unica possibilità di provare a capire cosa stia succedendo, di provare a ricordare. All’altro capo, principalmente sua sorella, anche lei ricercatrice, anche lei al lavoro per cercare una cura mentre l’epidemia si stava diffondendo a macchia d’olio per il mondo. Almost Dead, pur cedendo a qualche fase di stanca, “peccato” più che perdonabile nel marasma di problemi del low budget, rivela progressivamente le sue verità alla sua protagonista e allo spettatore, racchiudendo nel morbo da cui sono affetti gli zombie la lotta di classe, racchiudendo nell’impossibilità di produrre l’antidoto per tutti l’imposizione governativa nel decidere in base al ceto chi avesse diritto di sopravvivere e chi no, racchiudendo nel progressivo e incompleto ritorno della memoria per Hope tutto il dolore di chi ha visto, per propria colpa, sbranare e trasformarsi il proprio cognato che stava cercando di salvarla, tutti i sensi di colpa di chi ha fatto parte di una simile macchina d’ingiustizia sociale, tutti i rimpianti di chi nemmeno ricorda la propria figlia e ora soffre all’idea di non vederla mai più.
Una madre, Hope, come è(ra) una madre la sua rapitrice, il cui figlio evidentemente non era considerato degno di sopravvivere da chi aveva in mano l’antidoto. “Non voglio diventare una di loro”, è l’ossessione di una donna sola in mezzo al pericolo. Sola, anche per colpa propria, per la propria diffidenza, per gli eccessi del suo istinto di sopravvivenza. Ma chi è il vero mostro? Sono i famelici zombie che assediano l’automobile nella notte, o forse sono proprio quelli rimasti ancora uomini, pronti a usare altri uomini come esca, pronti a dividersi in classi, pronti a sacrificare con sprezzo e senza rimpianti chi conta meno? O forse, più probabilmente, quello messo in scena da Almost Dead è un mondo di sole vittime, perché è sempre e solo il Capitale, ventre molle e oscuro, a tenere le fila, ad annichilirci, a farci marcire. Quello stesso Capitale, se vogliamo, che tiene inspiegabilmente un cinema underground, capace di riflettere su un genere con pochi soldi e tanta viva passione, capace di rifiutare gli zombie di corsa che negli ultimi anni tanto hanno fatto infuriare il loro creatore George A. Romero, capace di declinare in un horror minimale un dramma di coscienza e di critica alla società, fuori da qualsivoglia logica distributiva italiana. Il Capitale come il morso di uno zombie, come un morbo. Come una fialetta ritrovata solo quando ormai è troppo tardi.
Marco Romagna