ALMA VIVA (2022), di Cristèle Alves Meira
Forse è proprio quella presente in sala a introdurre commossa il suo lungometraggio d’esordio la principale “anima viva”, in questo diciotto maggio già estivo di una Cannes che dopo il Covid finalmente brulica. La regista è la franco-portoghese Cristéle Alves Meira e con Alma Viva di nuovo omaggia lo splendore misterioso del nord-est portoghese dov’è cresciuta e che già aveva investigato nel suo precedente cortometraggio Tchau Tchau (2021), in cui già figurava la giovanissima Lua Michel. Sul palco della Semaine de la Critique, con lei, l’intero cast di attori professionisti e non, alcuni dei quali realmente imparentati per rendere ancora più vivo e sincero questo film che strappa ogni etichetta e che è mille cose insieme: coming of age, film di mistero, dramma familiare o racconto di stregoneria. Ma non è che importi molto il genere, in fondo conta solo in che cosa vogliamo credere. C’è chi crede in San Giorgio, per esempio, come la “Avo” dell’inquadratura iniziale mostrata attraverso il giallo smerigliato della porta finestra e l’occhio della giovane protagonista, che come accadrà per tutta la durata del film già ora spia quello che fanno gli adulti di fronte al dolore. Chi prega, chi si dispera, chi si arrabbia, chi si scanna e chi si sorregge, ma soprattutto chi fa tutte queste cose insieme. La Avo prega. La nonna voluttuosa, allegra, diabetica, il cui rapporto di amore simbiotico con la nipote diventa il centro nevralgico della storia e la frattura da cui sgorga il “non è vero ma ci credo”, nella prima parte da viva come nella seconda da morta, sempre nell’ambito di quell’atmosfera di realismo magico che è il tono di tutto il film e che si potrebbe tradurre in letteratura con un racconto di Garcia Marquez o di Allende.
Realismo, perché è tutto reale: la camera non distoglie mai lo sguardo ed è come se sostituisse quello della piccola Salomé che con naturalezza e nonchalance indaga la casa e i suoi abitanti, talmente veri da risultare tristi, commoventi o grotteschi . Con verità sono mostrati i seni grassi e cadenti della vecchia matriarca, quando la aiutano a lavarsi così come quando si riveste ma fa troppo caldo e rimane in reggiseno, quelli grandi e contenitivi delle nonne. Così come similmente i piedi usurati e stanchi della stessa, con le unghie un po’ ingiallite che spuntano antiestetiche da una ciabatta con cui la bambina gioca, con quella concentrazione seria e inspiegabile che a volte i bambini hanno mentre fanno altro e insieme ascoltano distrattamente gli adulti, che in questo caso commentano una telenovelas mentre mangiano con la tv accesa. Reali anche i litigi, le gelosie, i pianti, gli esaurimenti, le tirate di capelli e le frasi cattive dette nei momenti di rabbia e rimangiate subito con uno scusa mi dispiace, perché in famiglia tutto vale e tutto ci si perdona. E infine reale è l’incredulità della nipote di fronte alla morte della Avo, avvenuta all’improvviso in seguito a un colpo al cuore. O è forse stata avvelenata dal fatidico pesce donato dalla vicina cornuta? Non sarà compito di Salomé scoprirlo visto che già ne è convinta, ma dovrà direttamente vendicarla ora pregando San Giorgio per invocare gli spiriti col fuoco di due sigarette accese come nella scena iniziale e incarnando in sé lo spirito della defunta, e ora come Erinne assetata di giustizia. Non solo nei confronti della vicina-Medea, che per rifarsi dei tradimenti avrebbe forse mandato all’amante del marito un dono mortale (quell’innocuo pesce sviscerato con destrezza di fronte a una macchina da presa che gli stava attaccata e fritto mentre la bambina disegna sul muro col suo sangue), ma nei confronti dei propri figli stessi – quella emotiva arrivata da Parigi, quello più menefreghista, quello con disabilità fisica e quella alla disperata ricerca di un uomo. Figli ora accecati da fastidi inutili e inopportuni fatti di piccolezze organizzative, di soldi, di recriminazioni, e ora oggetto dell’ira della madre scomparsa – infine anch’essa Medea, senza arrivare così in là.
I desideri della morta sono ora fatti propri da Salomé, che in una sorta di trance spinge la vicina giù dalle scale e sgozza le galline del pollaio della zia, perché la nonna non è ancora contenta. Razionalità e magia continuano a confondersi mentre l’ultima fetta adulta di parenti rimasti congeda l’ipotesi che la bambina possa essere davvero posseduta, cosa che ormai il paese inizia a credere. La congeda non dopo averle fatto ingoiare una testa di pollo per cacciare lo spirito, in una scena descritta con crudezza di dettagli, sempre per quel realismo magico che forse in questo momento raggiunge l’apice, mentre sentiamo la saliva inumidire le piume e vediamo il sangue colare dalla bocca della protagonista schifata ma obbediente. Obbedisce perché per quanto ami la nonna «non vuole essere una strega», come le sussurra quando dopo giorni è ancora nella bara aperta, in una casa calda che le cuoce lentamente il corpo. Ed è questa una delle prime volte in cui sentiamo parlare di «stregoneria», un’accusa che ora il paese inizia a rivoltare contro la famiglia a partire da quando un incendio ritenuto non casuale costringe tutti gli abitanti a fuggire. E anche la nonna in qualche modo è come se fuggisse, nell’ultima tappa del suo cammino sulla terra mentre la sua bara viene portata al cimitero tra i fumi del fuoco che creano scompiglio, l’incenso del prete che vi si confonde e le urla e gli insulti di alcuni compaesani. Rimane solo questa famiglia un po’ sgangherata, a tratti sbrindellata, sicuramente disordinata ma unita da amore, segreti, forse bugie e forse ancora, davvero, un po’ di magia. Basta sollevare la bara abbandonata dai becchini e attraversare gli ultimi centimetri di paese per esaudire l’ultimo desiderio della vecchia, quello di essere seppellita, a costo di farlo letteralmente con le unghie. Mentre la musica da extradiegetica si scopre essere diegetica, quella melodia di sapore portoghese e vagamente “stregante” che vediamo suonare da una banda improbabile proprio davanti alle mura di pietra e che accoglie il quadretto familiare che ora arriva, zoppicante ma comunque dignitoso. Le tre donne sono in nero, abbracciate.
Scavano con le mani e con i piedi ricoperti di polvere, sporchi di dubbi e di tristezza fino a quando, a missione compiuta, una pioggia di liberazione si riversa su di loro e li lava. Possiamo intenderla come una semplice pioggia, così come possiamo intendere tutte le peripezie di Salomé come vagheggiamenti di una bambina fantasiosa e irrequieta in risposta al lutto. Oppure possiamo scegliere di credere nella stregoneria, nelle cose che razionalmente sappiamo non esistere, ma a cui in fondo, dentro di noi, ci piace un po’ credere. Come quando eravamo piccoli ed era tutto possibile, e il mondo degli adulti era ancora quella nebulosa di noia, responsabilità e incomprensibili incomprensioni dal quale pensavamo non ci saremmo mai fatti fregare. Possiamo ancora evitarla, quando siamo al cinema. Così come qui possiamo credere in tutto. Nel film c’è chi crede nelle streghe, chi nel diavolo, chi nell’odio, chi nell’amore, chi in tutte queste cose insieme e chi in nulla, ma Alma viva non è un film sul credere. È un film, semmai, sulla possibilità di credere, sugli infiniti tentativi di comprendere e sempre, perennemente razionalizzare (anche irrazionalizzandolo) questo mondo di cui non si capisce niente. Ognuno ha la sua chiave di lettura, ma alcuni ne hanno mille. Tendenzialmente i bambini. È per questo che, in definitiva, Alma viva è soprattutto un’ode all’infanzia.
Bianca Montanaro