ALLIED – UN’OMBRA NASCOSTA (2016), di Robert Zemeckis
Allied è il diciottesimo lungometraggio diretto da Robert Zemeckis, uno dei più grandi registi hollywoodiani della sua generazione, scoperto da Spielberg e autore di una miriade di film di culto: dal controcampo comico-romantico di Indiana Jones costituito da All’inseguimento della pietra verde fino alla storica trilogia di Ritorno al futuro, dal capolavoro neo-noir che ibrida live action e animazione Chi ha incastrato Roger Rabbit? fino alla dolcezza arraffa-Oscar di Forrest Gump, dalla solitudine di Cast Away alla pacchiana trilogia di film d’animazione in motion capture composta da Polar Express, La leggenda di Beowulf e A Christmas Carol. Nella sua filmografia c’è insomma di tutto, dal grande successo al flop al botteghino, dal film coraggioso al film paraculo; ma tutto sommato rimane un nome comunque a cui siamo affezionati, e ogni suo progetto cinematografico recente sembra palesarcisi davanti come una sfida: la fase più recente della sua carriera, infatti, se mettiamo accanto ad Allied i recenti Flight (2012) e The Walk (2015), sembra dedicarsi ad una sorta di ritratto umano di spiriti storici e cinematografici, come a voler delineare in immagini le sagome corporee delle interiorità di queste figure analizzando nel frattempo la Storia e le implicazioni etiche delle vite che gli si parano davanti. Per questi tre film si è affidato a tre sceneggiatori diversi: John Gatins per Flight, se stesso e Christopher Browne per The Walk, e Steven Knight (lo sceneggiatore di La promessa dell’assassino di Cronenberg) per quest’ultimo film, creando tre storie ugualmente umane ma con delle differenze sostanziali, passando dal racconto di catarsi alla profondità della Storia, raggiungendo poi una rivisitazione cinematografica a tutto tondo con questo Allied, storia di spionaggio nella seconda guerra mondiale che comincia freddo e chirurgico e si conclude malinconico nella nebbia del dopoguerra, riflettendo sulla natura stessa della narrazione cinematografica, sui patti non scritti fra immagini e pubblico, su come, alla radice stessa della messa in scena, ci sia la finzione, nella quale l’unica regola che davvero conta nel (doppio) gioco, fra spie come sullo schermo, è saper mentire bene e (non) farsi scoprire: “All lied”. Ma andiamo con ordine.
Un paracadutista col volto di Brad Pitt scende (con un ritardo che rompe subito le regole “classiche” della narrazione, iniziando a dichiarare apertamente la sua natura di finzione) nel bel mezzo del deserto e attende una macchina, all’interno della quale gli vengono date istruzioni per incontrare una donna, “sua moglie”, che indossa un vestito viola. Questo inizio in medias res porta l’eroe Max Vatan a interpretare immediatamente un personaggio, una specie di eroe noir à la Rick Blaine/Humphrey Bogart di Casablanca (1942). E infatti è qui che siamo trascinati, nella Casablanca del 1942, nel bel mezzo della guerra, con le strade occupate a tratti da ufficiali nazisti, e Max fa parte, insieme alla moglie fittizia Marianne Beausejour, interpretata da Marion Cotillard, di una stessa associazione con lo scopo di assassinare un ambasciatore tedesco. Il primo gesto che Max e Marianne si scambiano è uno sguardo, il secondo un sorriso, il terzo un bacio. Così, bloccati nel cinema, in un teatrino che va avanti e indietro per una città che di per sé è cinema, Max e Marianne si ritrovano a recitare i ruoli del marito e della moglie, ed è così che si innamorano: fingendo, sia per l’altro/a sia per noi spettatori sia per gli spettatori-altri (le persone che devono far finta di conoscere, in giro per la città marocchina), di essere qualcosa che non sono. L’amore scocca attraverso il ripetersi, distaccato e tragico, degli stilemi di un cinema che non c’è più; solo resuscitandolo la storia può andare avanti facendo spazio a questa inevitabile tensione, che ha il culmine in due scene: ovviamente l’attentato, giustamente calibrato per complessità d’azione, che ricorda un po’ Inglourious Basterds (anche perché uno dei nazisti è interpretato da August Diehl, lo stesso che nel film di Tarantino interpretava l’angosciante maggiore Hellstrom), e, pochi minuti prima, la scena di sesso in macchina tra Max e Marianne. L’auto è parcheggiata nel deserto, mentre un’angosciante tempesta di sabbia divampa attorno quasi fosse il fuoco della passione che si sta consumando. Ma non è una tempesta che “porta via” o che “lascia per terra” i resti di un qualcosa, come poteva esserlo la tempesta risolutiva di American Sniper di Eastwood, bensì è una tempesta che scalfisce solamente le superfici: la macchina trema, il sesso continua a consumarsi all’interno dell’involucro. Un sesso che diventa amore, ma che continua a non farsi scalfire.
Il film, tuttavia, è nettamente scisso in due parti, e la prima, meravigliosa parte a Casablanca sfortunatamente è la più breve delle due. Quest’amore che soffre e sopravvive, sconfiggendo la Storia e le sue derive mortifere, nella seconda parte sembra subire un processo di destabilizzazione che passa tanto dall’Eros quanto dalla Storia, tanto dall’interiorità di Max quanto dall’esteriorità dei dubbi che sono inevitabili nell’irrealtà cinematografica. Tuttavia, pur continuando con tragica coerenza i contenuti della prima parte, a livello puramente logico-narrativo il film perde originalità: gli esseri umani persi nel cinema smettono di essere enigmatici, e con il matrimonio la loro vita diventa ormai sostanzialmente un dramma storico di tradimenti in cui il conflitto etico è tutto concentrato sulla separazione tra l’amore e la Storia, con il sospetto sempre più forte che Marianne sia in realtà una spia tedesca. Questa sottotrama si svolge narrativamente in maniera prevedibilissima ma giustamente archetipica, e Zemeckis riesce a gestire alla perfezione i tempi per la tensione e per l’azione, giocando spesso sull’aspettativa – a volte sapientemente frustrata – dello spettatore seguendo le mani dei personaggi o i loro scambi di sguardo. È incredibile ad esempio la scena del party a casa di Max e Marianne, in cui l’anacronistica sorella apertamente lesbica di Max (interpretata da Lizzy Caplan) riporta all’origine tragica il proprio orientamento sessuale mostrandosi solo come “freak” ai soldati arrapati che girano per casa, mentre Max e Marianne si guardano per pochi secondi e distolgono lo sguardo, come inseguendosi con i sospetti, finché non arriva il bombardamento che fa collassare le pareti delle loro sicurezze: una macrosequenza piena di libido e di tragedia, che, con la tensione erotica dello sguardo e con il caos dei ritmi del party a suon di alcol e cocaina, riesce perfettamente ad aumentare la tensione verso un inevitabile finale drammatico in cui la speranza di un’unione è affidata al futuro. Il futuro del cinema, forse, della generazione del dopoguerra, quella proprio di Zemeckis e di Scorsese, anche lui in sala in questi giorni con l’ottimo Silence. Le pareti della credibilità – volutamente – non reggono, proprio perché quelle del cinema possano rivelarsi e supportare una grande eleganza anche nei momenti più deboli: in particolare i 10 minuti che “connettono” la prima e la seconda parte del film, in cui prima viene permesso a Marianne di venire a vivere nel Regno Unito e poi viene mostrato il parto di lei, all’aperto, durante un bombardamento, con le infermiere che applaudono nel mezzo della distruzione. In queste sequenze sulla carta inverosimili e, volendo, poeticamente pacchiane, probabile causa del flop (o quasi) in occasione dell’uscita in sala statunitense, Zemeckis crea un collage di regia e di montaggio affascinante, inserendo il simbolismo del vetro rotto, che poi ritorna verso la fine del film, e riesce a donare pathos visivo anche quando il perdersi nel cinema non si manifesta più come una concretizzazione del teatro-mondo, ma semplicemente come uno spaesamento, nella bellezza, forse. Quindi, nonostante gli inevitabili difetti, ci si innamora un po’ di Allied, della sua palpabile tensione, dei suoi colori caldi e freddi, dei suoi amplessi eleganti, dei suoi volti statuari, delle sue licenze narrative che assurgono a tema forse principale del film. Sperando che diventi un film di culto, come meriterebbe di essere, come commento della (e per la) Storia di un qualcosa che non c’è più, ma che può sempre rivivere, attraverso gli occhi spenti di una fotografia che si unisce, alla fine, innocentemente, in una nebbia che non ha dimenticato la tragedia nazista ma che è indipendente da essa. Vera come la finzione.
Nicola Settis