14 Ottobre 2016 -

Alla nostra (s)cortese (dis)attenzione…
ovvero il giullare e il menestrello (del Nobel; di figurine e di altre storie)

Preferirei costruire impugnature per armoniche
piuttosto che discutere di antropologia azteca/
letteratura inglese o storia della Nazioni unite

Bob Dylan, retro di Bringing It All Back Home, 1965

Mi sveglio alle due del pomeriggio, rituale oramai obsoleto per questo autunno che pare diventi piovoso. Ho mal di stomaco, come sempre, e cerco come sempre nervosamente una sigaretta. Mio padre bofonchia due cose, la terza la sento al tg. Vengo da una notte già di per se storica: Gretzky e Messier che inaugurano la centesima stagione Nhl a Rogers Place e poi i quattro (!) gol del rookie Matthews all’esordio, mai nessuno come lui. Ma a voi giustamente del Messia e di Great One vi frega ben poco, tantomeno del giovane Auston e del ritiro per disintossicazione del folle e buffo Tyson Fury, uno dei pochi massimi a battere Vladimir Klitschko (ecco questa era la terza notizia, quella della tivì). Veniamo al sodo dunque, a quello che borbottava mio padre, la morte di Fo e il Nobel a Dylan. Premettendo che questa riflessione non ha nessun valore di qualsiasi tipo è interessante pensare che nasca almeno un mese fa, alla chiusura di una Biennale cinema che lasciava tanti dubbi sul senso stesso del giudizio, sull’assolutismo e la pseudo-sicurezza di una posizione, sull’epitetare tutto e tutti lungo l’asse infausta che va da “merda” a “capolavoro” (non solo applicata ai film), sulla superficialità insomma. E di questa superficialità oggi sono piene molte e molte riflessioni (anche questa probabilmente), come se il Lido (e pure i suoi premi in un certo senso) sia sempre più luogo di codifica ampliamente simboleggiato nella comunicazione, grande e piccola, della nostra società. Oggi è un giorno che realmente pare avvicinare due persone, entrambe legati alla tradizione popolare, entrambe in prima linea per la protesta ed i diritti civili, entrambe personaggi di rottura e forse di riconciliazione. Ma dunque cos’ha avuto in serbo il destino (mediatico) per noi? Beh, qui il punto si fa davvero complicato. Ricordare in pompa magna un personaggio come Dario Fo è probabilmente doveroso, ma mostra una sua certa problematizzazione a iniziare da coloro che lo celebrano, per non parlare poi del più che ambiguo atteggiamento della tv di stato che dopo anni di censura ed epurazione ore ne riempe i palinsesti. Ovviamente scorrono nelle bacheche il tweet di Salvini da una parte, come quello di Ferrero dall’altra, la prima pagina del Fatto (compagno che diede voce agli oppressi) a sinistra, come quella di Libero (repubblichino forse pentito) a destra, ma chi era costui? Lungi da me prendere posizione, c’è in tutto ciò evidentemente un vizio di forma che mostra contraddizioni. Sull’autore e sul genio creatore di Fo c’è poco da dire. Oggettivamente il suo percorso artistico da uomo di teatro a tutto tondo (sperimentando linguaggi e lingue, ridisegnando rapporti e rappresentazioni, contestando il potere e gli accademismi) è ineccepibile e fondamentale, ma ben più complesso sarebbe definire la sua posizione. Dalle parti di Salò ci è stato davvero e pure da volontario (e pure operativo)1, la redenzione appare poi sotto le forme dell’appartenenza a Democrazia Proletaria anche da militante sicuramente apprezzabile, fino al finire affabulato (e forse strumentalizzato) nella demenza del magma pentastellato. Ma non è questo il punto, probabilmente, bensì l’uso stesso che si fa di questa figurina del nostro tempo in mezzo a Gaber, Jannacci e Celentano in quella Milano d’avanguardia provinciale così stimolante; l’ennesimo intellettuale stratificato e controverso che in questo anno nefasto, ben prima di essere tre metri sotto terra, già viene sventolato ai quattro venti prendendone ogni porzione utilizzabile (a ciascuna parte la sua giusta, ovviamente, nella fede del populismo). Ma questo non è nulla. Pochi minuti dopo da Stoccolma arriva la notizia che sconvolgerà (?) il mondo: il prossimo premio Nobel della letteratura verrà assegnato a Bob Dylan – apriti cielo – per “aver creato nuove espressioni poetiche nell’ambito della grande tradizione musicale americana”. A un primo sconforto ridicolo e polemico di complessati scrittori falliti (Baricco su tutti), tutta l’opinione pubblica (accademica, giornalistica, popolare e populista anche qui) si interroga sullo storico dibattito letteratura-musica-poesia. Si alzano le barricate, riprovevoli letterati perbenisti da una parte e infantili fans deliranti dall’altra. I social così impazziscono, c’è chi cita l’epica di Omero e chi i trovatori provenzali, chi i cantastorie siciliani e chi gli skald scandinavi, chi nella tradizione ellenica della poesia lirica vede il germe della letteratura che si emanciperà solo nel Settecento e chi è su tutt’altro fronte affermando che sulla costruzione convenzionale di quell’emancipazione la dignità ed il valore dello scrivere non può e non deve confondersi con il cantare. Ma voi pensate che il comitato svedese abbia pensato a tutto ciò nel momento dell’assegnazione? Beh, ne dubito fortemente. Proprio già qui urge la prima riflessione, quella direttamente legata al senso del Nobel per la letteratura non tanto guardando chi è stato premiato, ma più che altro chi non lo è mai stato (Pessoa e Joyce, Borges e Lorca, poi Proust su tutti, per citare i primi che vengono in mente), e chi ancora lo aspetta da molto (Roth e De Lillo su tutti, giustamente). Allo stesso modo considerando ciò che solo cinque anni fa il segretario dell’assemblea di Stoccolma, Peter Englund, esprimeva sul signor Zimmerman (“sarebbe un UFO della letteratura”)2 c’è da chiedersi cosa abbia portato a questa scelta, soprattutto in questo duemilasedici. Le ragioni del conferimento sono senza dubbio molteplici, a partire dal cinquantennale dall’uscita del suo monumentale “Blonde on Blonde”, chiave di lettura poetica e intimista imprescindibile nel caos dei rapporti personali del secondo Novecento, o dal ventennale del momento in cui un professore di letteratura del Virginia di Lexington, Gordon Ball (amico di Mekas e Ginsberg), diete vita ad una raccolta firme per sottoporre la candidatura di Dylan all’Accademia di Svezia. A parte questa concomitanza temporale sembra che ci possa essere altro, molto altro, dietro alla scelta dei beneamati saggi. Traslando un attimo la categoria del Nobel (e tralasciando ovviamente quelli scientifici) vengono in mente molti degli ultimi premiati nell’ambiguo ambito (e ambìto) “pace”. Appare subito chiaro che in molte di queste scelte non ci sia alcun elemento di merito bensì qualche palese direzione politica (Obama, l’Unione Europea, l’OPAC) associabile probabilmente in modo più vago anche al cant(aut)ore di Duluth. Ebbene si, se il premio riservato (a priori) al primo presidente afro-americano nella storia degli Stati Uniti aveva il sapore di investitura ufficiale, quello a Dylan (a posteriori) proprio oggi potrebbe vedersi come un omaggio al punto più alto, ed erede ultimo, di uno dei movimenti contro-culturali fondanti del ventesimo secolo, nel tentativo di sottolineare la deriva drammatica (Trump o Hillary, poco cambia) dell’America prossima ventura, colei a cui lui come nessuno ha dato voce. Ma ciò potrebbe anche non voler dire nulla. Nulla da dire infatti, nonostante abbia in questo momento una malinconia ed una difficoltà emotivo-personale ad ascoltarlo ed a parlarne, su/di colui che ha mostrato in forma canzone più di ogni altro l’attuale desolazione del reale elevando anche la stessa musica a forma poetica e romanzata del contemporaneo, e tantomeno nulla da dire sull’impatto assoluto che esso ha avuto su tutte le classi e in tutte le latitudini come lettore e interpretatore estremo del proprio (e nostro) tempo creandone spazi di parole infiniti ed inesplorati. Dico ciò non entrando minimamente nel merito di tale assegnazione (perché non ne sono in grado, e perché di fatto non me ne frega nulla), di quanto l’ambiente letterario possa essere spaccato da ciò, di quanto la tradizione dei cantori abbia trovato collocazione colta e stabile in quella scritta, o di quanto quella che da Williams e Guthrie porta proprio a Dylan sia debitrice di una corrente tutto sommato più popolare (country e poi rock) mediata successivamente da una poetica fenomenologia esistenziale. Il punto nemmeno è questo, perché sempre di figurine stiamo parlando. Poco importa del gentile e rispettoso endorsement postumo di molti grandi tra cui lo stesso De Lillo3 (e dell’altro illustre candidato Oates) o al contrario allo scherno delle parole al vetriolo di Welsh, perché (almeno per chi scrive) poco importa il gioco a cui stiamo tutti giocando. Perché di gioco si tratta lo stesso Nobel, soprattutto per una personalità che tutto è stata, angelo acustico come diavolo elettrico, scrittore (lo splendido e polimorfo “Tarantula”, l’isterico biografismo di “Chronicles”), attore (il Pat Garrett di Peckinpah in primis) e addirittura regista (nel controverso universo sperimentale, allucinato ed affascinante di “Renaldo e Clara”) al di là del mestiere di scrivere canzoni rappresentando il proprio presente, reinventandosi il proprio passato, sfuggendo al proprio futuro. Perché a lui di questo Nobel non penso possa interessare molto (non si è ancora espresso e difficilmente a breve si esprimerà visto che nessuno è ancora riuscito a contattarlo) e neanche a noi dovrebbe, proprio perché non può andare al di là del chiacchiericcio da bar o da chat. Tanto per parlare, lo avrebbero meritato De Oliveira o Ruiz, lo meriterebbero Straub o Bressane? Provocazioni forse, o forse no, se ci ponessimo come problema (pure aristotelico) lo scindere la questione sul mestiere, ovvero sulla missione sempre più donchichottesca del lavoro sul reale attraverso la parola come struttura inglobata in altri linguaggi. Si potrebbe non essere d’accordo sul Nobel a Dylan, e io stesso a mio modo potrei, pur essendone felice, avere dei dubbi, ma in fondo cosa ci interessa? Cos’è, se non un’altra medaglia (parlando per lui dopo il Pulitzer) sulla giacca di una figurina? Molto più interessante risulta dunque il gioco ben più subdolo delle trincee che, come per Fo, in queste ore si sta facendo realmente ridicolo. Da una parte il mondo accademico più lato che si sente espropriato, detronizzato, deturpato da tale sciattezza del suddetto premiato che al massimo del poeta potrebbe avere il nome (Dylan Thomas, come se lui lo avessero mai considerato…) e la figurina sbiadita di un certo sessantottismo incancrenito che scimmiotta beat ed ermetismo nell’ottica di una prossima apocalisse. Dall’altra l’ala del tifo radicale, quelli per cui quella figurina è un santino, figura cristologica e nostalgica dei tempi che furono, coloro che si indignano perché solo oggi è arrivato questo riconoscimento per il più grande intellettuale del Novecento tutto, coloro che brindano oggi sbeffeggiando i sopracitati. Lungi da me aver qualsiasi tipo di vicinanza ai primi (l’accademismo lo aborro quasi a prescindere), qualcosa di vero ci potrebbe essere se pensiamo ancora alla categorizzazione teorica di un’espressione umana (artistica, culturale, sociale che sia) attraverso dei canoni definiti e tecnici, cosa che i secondi nemmeno tengono in considerazione perché annebbiati dal sentimento ultras che li pervade. Lo stesso discorso che può valere per entrambi è quello di definirlo come “cantautore” tralasciando completamente l’approccio semiotico sulla parola che già le avanguardie apportarono e l’impatto di icona universale (storica, e non all’interno della sola musica) sulla comunicazione di massa dall’era nixoniana fino a quella digitale. Al massimo ci si potrebbe porre il problema delle scelte fatte negli ultimi anni, quantomeno discutibili, da quell’apertura del Nobel alla letteratura a un uomo di teatro spurio come Fo, fino al cantautore Dylan (e che potrebbe consegnarlo in un futuro abbastanza prossimo a figure quasi altrettanto importanti come Waits e soprattutto Cohen). In questi ultimi venti anni a Stoccolma sono arrivati molti personaggi poco conosciuti (e questo sì che potrebbe essere condivisibile) ma che nel merito del loro approccio, rapporto e narrazione con il reale spesso hanno lasciato a desiderare; senza fare nomi, assolutamente. Proprio anche per ciò il Nobel a Dylan (o per la pace o per la letteratura o per quello che volete voi) era in qualche maniera prima o poi inevitabile, e probabilmente anche giusto perché lui nell’ambito di quella tradizione (citata nella subdola motivazione) realmente c’è stato con la purezza di chi è sempre riuscito ad emanciparsi anche da se stesso, e lui quella frattura l’ha ampiamente vissuta e raccontata da cantore di tempi altri nel tempo d’oggi, negli sterminati spazi d’America come nella più truce bettola blues, segnando indelebilmente un’era, avvicinando anche molti pagani alla poesia, invitandoci ogni giorno ad uscire e a camminare per conoscere il mondo4. Ma tornando alle fazioni, a noi che non siamo (almeno me lo auguro) nè da una parte nè dall’altra, e tantomeno librai che hanno paura di non fare una scorpacciata di soldi nel weekend successivo all’assegnazione per la vendita abusata dei libri del premiato, cosa ci dovrebbe interessare la storia di questo premio che porta il nome di colui che inventò la dinamite? E, nello specifico, non ha un po’ lo stesso sapore rancido dell’Oscar alla carriera di Godard? Ai posteri, più presumibilmente a voi, l’ardua sentenza. Quello che rimane è senza dubbio questa selva di giudizi impropri, questa deriva di esposizioni delle nostre opinioni a proposito della contemporanea morte di un attore novantenne e della consacrazione accademica di un musico settantacinquenne. Su questo dovremmo davvero interrogarci, su questa drammatica e (parrebbe) irreversibile psicopatologia dell’oggi, quel piccolo e grande nostro disturbo narcisitsico e annoiato della personalità, che proprio in queste ore sta raggiungendo proporzioni vertiginose e inquietanti; un melma di banalità di cui tutti siamo colpevoli senza il nostro stesso controllo, oltre che ovviamente senza motivo. Come se un autore davvero dovesse morire per esser letto o venir premiato per esser ascoltato, senza preconcetti, senza posizioni, senza trincee. Tutto ciò in un unico flusso, in un altro giorno in fondo come un altro. Su Raisport passa un falso documentario sul Mundial del ’42 (quello forse giocato in Patagonia con i Mapuche), ascolto un disco splendido di un sedicenne suicida brasiliano consigliato da un amico mentre mio padre contesta il potere di sciopero oramai naufragato dei sindacati, fino a quando cado su un video-omaggio ai sessantanni della Rivoluzione Ungherese dell’autunno ’56. Infine parole, molte parole su tutto questo, a casa di un amici appena tornati come su questa maledetta tastiera, e tutti in fondo a chiedersi se ci sia davvero una parte giusta della storia o se valga tutto, se tutto sia definitivamente relativo. Nella notte al BB&T Center di Sunrise, Florida, è sceso in campo Jaromir Jagr, per la sua ventiseiesima stagione da professionista. Se siete arrivati a questo punto dell’articolo (presumo di no, altrimenti tranquilli che fra poco smetto) molti di voi si chiederanno chi lui sia. Beh il numero 68 ceco (quel numero per i suoi nonni che morirono come attivisti nella Primavera di Praga, quasi da Nobel per la pace) è tra i più forti hockeisti di sempre e tra i più importanti sportivi in attività della sua epoca; ha quarantatreanni ed a suo modo è molto più grande di Messi e di Totti, di Cristiano Ronaldo e di Higuain, però nessuno lo conosce. Questione di prospettive e di figurine, no? Nella concatenazione di eventi, suggestioni, immagini, parole e caos succedute in questa giornata emerge forse solo un’altra osservazione, l’ultima, definitiva nella sua ovvia provvisorietà. Quella secondo la quale due personaggi come Fo e soprattutto Dylan hanno continuamente scavalcato il campo, rendendo spuria la narrazione di una società dalla lettura sempre più stratificata e quasi impossibile, o forse possibile solo a chi dalla propria figur(in)a sfugge ma continuando a giocarci, come due pedine di ruolo nella schacchiera ideale del nostro medioevo (giullare e menestrello), cercando di essere altro al di là di qualsiasi approccio letterario propriamente detto. La giornata così va a sfumare, persa a leggere (tra cui oltre a bacheche che mi hanno invitato e aiutato a scrivere ciò, cose che potrete trovare in allegato, se siete proprio curiosi) e a scrivere (ciò che ahimè avete appena letto). Jaro5 ha iniziato a giocare nel settembre del novanta, pochi mesi prima che io nascessi, lontano dai giorni in cui il Nobel sarebbe andato ad un menestrello e ancor prima a un giullare. Ora mi metto la sua maglietta dell’oro di Nagano ’98, faccio scaldare un po’ di thé e guardo la partita. Del resto non ho una mazza da fare, ho i miei consueti spasmi allo stomaco e la mia consueta sigaretta, e domattina mi alzerò probabilmente ancora alle due, sperando che tutto ciò sia un po’ meno movimentato. Misteri buffi che soffiano nel vento, e che lì rimarranno, in quest’alba di una pioggia d’ottobre.

Erik. Acqui Terme,
la notte tra il tredici ed il quattordici del mese decimo,
anno Duemilasedici.

Erik Negro


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