13 Novembre 2023 -

ALL OF US STRANGERS – ESTRANEI (2023)
di Andrew Haigh

«Nobody knows
The trouble you feel
Nobody cares
The feelin’ is real
Johnny,
We’re sorry,
Won’t you come on home
We worry,
Won’t you come on»
Fine Young Cannibals, Johnny Come Home

Si era come volatilizzato, Andrew Haigh, sparito dai radar della scena cinematografica britannica a cui lui stesso, nella prima metà dello scorso decennio, aveva assestato un discreto scossone, inizialmente con Weekend45 anni, grande dittico antitetico sulla fragilità dei rapporti di coppia, seguito da una trasferta americana, Charley Thompson, tornata da Venezia74 con il Premio Mastroianni in saccoccia ma anche con la reputazione non proprio immeritata di opera minore, interlocutoria, volenterosa ma a tratti anonima.
Da allora solo qualche segno di passaggio sul piccolo schermo, nulla di più di un paio di episodi di una serie Netflix diretti con la mano sinistra e l’apprezzabile adattamento in 5 episodi de Le acque del Nord di Ian McGuire: urgeva dunque un cambio di rotta, un tentativo di ritrovare l’orientamento dopo anni di confusione in cui la giovane promessa che aveva forse bruciato le tappe rischiava di finire nell’anonimato e nel mercenariato televisivo, e il risultato è quello che, stando alle dichiarazioni dell’autore, è il suo film più personale e sentito, quello in cui ritrova le tematiche e l’estetica degli esordi – gli stessi dell’acerba ma interessante opera prima Greek Pete, delle due fortunate stagioni di Looking e, per l’appunto, di Weekend.
Non che ci fosse bisogno di ammetterlo, visto che la cosa appare già evidente già dalla prima inquadratura, una veduta dall’alto di Londra che ricalca quella su Nottingham del film del 2011 e che prelude nuovamente a un breve tuffo nella sconsolata routine casalinga del protagonista di turno, e la cosa si fa ancora più inequivocabile quando si pensa al materiale di partenza, l’omonimo romanzo di Taichi Yamada già portato sullo schermo 35 anni or sono dal Nobuhiko Obayashi di Hausu, che Haigh spoglia di tutte le sue componenti orrorifiche pur mantenendo intatta la sua essenza di ghost story. L’ambientazione, com’è logico, si sposta da Tokyo a Londra, l’oggetto di attenzioni romantiche non è più una donna ma un uomo e l’intreccio, per quanto sommariamente ricalcato su quello della pagina scritta, è punteggiato di elementi autobiografici, in primis la casa nella borgata di Croydon in cui il regista ha trascorso l’infanzia che fa da sfondo principale a questo racconto soprannaturale che infrange le barriere del tempo e dello spazio, e che richiede allo spettatore uno sforzo notevole in quanto a sospensione dell’incredulità.

Deraglia quindi subito dai binari del realismo un film come All of us strangers, in versione italiana Estranei, per porci una serie di domande a cui solo la fantasia ci consente di dare una risposta: cosa faremmo se potessimo davvero affrontare tutte le questioni che sono rimaste in sospeso? Come ci comporteremmo se avessimo l’opportunità di relazionarci di nuovo coi nostri cari che la sorte ci ha strappato via? Quanto del nostro futuro saremmo disposti a sacrificare per rintanarsi nel rifugio di un passato che smette di essere terra straniera e comincia a ripopolarsi?
Estranei, presentato ad Alice nella Città a latere della 18ma Festa del Cinema di Roma dopo le prime di Telluride, Londra e New York, è dunque una storia di fantasmi, quelli che lo sceneggiatore quarantenne in crisi Adam vede magicamente materializzarsi mentre cerca di rielaborare il lutto mai sopito per i suoi genitori, morti in un incidente automobilistico quando lui era poco più di un ragazzino, quando i semi dell’uomo che sarebbe diventato erano ancor ben lontani dal germogliare: è l’occasione per portare alla luce quei nodi irrisolti, quei confronti mai avuti e quelle parole non dette che hanno gravato su tutta una vita, un’autentica benedizione che però, a lungo andare, può farsi tossica, distoglierci drammaticamente da noi stessi e logorarci al punto di farci perdere il controllo sulle cose.
Haigh limita dunque il teatro delle vicende fondamentalmente a due ambienti, ossia il tower block nuovo di pacca e semidisabitato di Stratford, quartiere geograficamente a due passi ma idealmente distantissimo dal fermento della Swinging City, e, come si anticipava, il focolare domestico di Croydon, letteralmente un’altra dimensione a metà fra il sogno e il limbo in cui le persone che abbiamo amato e perduto riappaiono come le avevamo lasciate: due mondi ripresi in modo antitetico, freddamente e desolatamente il primo, con il plumbeo cielo inglese a stagliarsi dalle grandi finestre dei piani alti, immerso in un radioso, irreale bagliore il secondo, un nido fragile come un guscio d’uovo eppure impenetrabile a tutto ciò che incombe fuori, eppure entrambi pervasi da una tensione sottesa che rende lampante l’idea che qualcosa non va.
Questo perché tanto dall’idilliaca, impossibile riconciliazione con mamma e papà, quanto nel legame appassionato che si instaura con Harry, l’unico altro inquilino dello stabile cittadino – sul cui ruolo specifico evitiamo di dire oltre per preservare la forza di un finale che spariglia, forse troppo, le carte in tavola, col rischio di saturare un ultimo atto già molto intenso – emergono i dettagli di un’esistenza sospesa e le ombre di sentimenti inespressi, quelli di un orientamento sessuale che i complessi della pubertà hanno costretto al pudore, anzi, al sottacimento, quelli di un senso di isolamento nient’affatto superato che il tempo ha reso patologico, quelli di una vita mai diventata adulta che non vedeva l’ora di tornare nel bozzolo, nell’abbraccio materno, nel letto della propria cameretta rimasta uguale.

Il presente riaffiora, e con esso i nostri sensi di colpa e il cruccio di non essere stati all’altezza di ciò che gli altri si aspettavano da noi, come si evince dall’evoluzione degli incontri familiari, che si fanno di volta in volta sempre più nervosi, pieni di ferite aperte e di tasti dolenti da non toccare, che passano da una cenetta trascorsa tutti insieme attraversando il viale dei ricordi e ballando al ritmo del giradischi a visite a tu per tu che sembrano trasformarsi in un terzo grado, o che quantomeno comprovano l’idea di un’(auto)accettazione non ancora raggiunta, fino a una notte di Natale in cui canticchiare Always on My Mind nella versione dei Pet Shop Boys mentre si addobba l’albero e si intuisce dagli sguardi che è il momento di passare oltre e di dirsi addio. Non prima di un ultimo pomeriggio insieme, in un vecchio centro commerciale scalcinato e nel suo diner in cui risuonano le note di If I Could See the World (through the Eyes of a Child) di Patsy Cline, ultima frontiera di una regressione infantile che non può che essere lasciata alle spalle: forse il momento più straziante di un film che non ha paura di mettersi a nudo e di aprire il proprio cuore allo spettatore senza stordirlo con la melassa, ma affidandosi alla sua intelligenza emotiva e alla sua capacità di riempire gli spazi lasciati vuoti.
Altrettanto struggente è il binario parallelo di questo film, dedicato all’amore che sboccia tra Adam e Harry, due diverse concezioni della natura omosessuale separate da un divario non solo anagrafico, tra le afflizioni e la paura dello stigma della Generazione X del primo e l’emancipatorio salto nel vuoto degli Zoomers di cui fa parte il secondo, ma anche identitario, che già la disquisizione iniziale sui termini “gay” e “queer” idealmente riassume: più che un’attrazione, un mutuo soccorso dalla profonda solitudine che li accomuna, che esplode in un dolcissimo finale che tocca letteralmente le stelle mentre The Power of Love dei Frankie Goes to Hollywood, non solo uno degli inni per eccellenza della comunità LGBTQIA+, ma anche brano che per Haigh ha significato, sin da quando aveva 10 anni, la presa di coscienza del proprio sé, ci porta ai titoli di coda.
C’è il pericolo di commuoversi senza ritegno, durante (e dopo) la visione di Estranei, un film che è, di fatto, tutto nello sguardo da bambino di un eccezionale Andrew Scott, interprete perfetto di questa fuga dalla normalità che non si capisce fino a che punto sia frutto dell’immaginazione e quanto si svolga su un piano concreto, che ci chiede di mettere temporaneamente da parte quello che c’è e di abbandonarsi per un po’ a quello che potrebbe essere o che avrebbe potuto essere. Non è forse anche questo, in un certo senso, il cinema?

Andrea Bosco

Ci è gradito comunicare che il film ESTRANEI di Andrew Haigh, distribuito da Walt Disney, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Motivazione:
Raccontando il tormento interiore per la perdita dei genitori e la scoperta della sua omosessualità, Adam cerca una riappacificazione con sé stesso, la famiglia e il mondo, attraverso la conoscenza di Harry. Andrew Haigh si conferma eccelso narratore contemporaneo dei sentimenti, grazie a una ricognizione spettrale dei protagonisti e un senso smisurato di perdizione tra sensi di colpa e amori fragili. Un film impalpabile sul dolore inconsolabile, dove la realtà perde i propri confini e il pensiero si fa immagine.
(uscita 29 febbraio 2024)
“All of Us Strangers” (2023)
105 min | Drama, Fantasy, Romance | United Kingdom / United States
Regista Andrew Haigh
Sceneggiatori Andrew Haigh, Taichi Yamada
Attori principali Andrew Scott, Paul Mescal, Carter John Grout
IMDb Rating 8.1

Articoli correlati

COW (2021), di Andrea Arnold di Simone Soranna
INVELLE (2023), di Simone Massi di Marco Romagna
BLUE GIANT (2023), di Yuzuru Tachikawa di Marco Romagna
IL RAGAZZO E L'AIRONE (2023), di Hayao Miyazaki di Nicola Settis
DIABOLIK - CHI SEI? (2023), di Marco e Antonio Manetti di Marco Romagna
CLORINDO TESTA (2022), di Mariano Llinás di Nicola Settis