ALL GOVERNMENTS LIE, TRUTH DECEPTION AND THE SPIRIT OF I.F. STONE (2016), di Fred Peabody

All governments lie, tutti i governi mentono. È la frase più nota di Isidor Feinstein Stone, pilastro del giornalismo americano e della libertà di stampa, ciò da cui, sin dal titolo, prende le mosse il film documentario del giornalista canadese Fred Peabody presentato a Bologna al Biografilm 2017. Ma non sono tanto le bugie di Stato, raccontate ieri come oggi ai comuni cittadini con identica faccia di bronzo da parte di chi ha accesso alle stanze dei bottoni, né le Truth, deception and the spirit of I.F. Stone del sottotitolo proprie di chi prosegue il lavoro del creatore della newsletter indipendente “I.F. Stone weekly” che dal 1953 al ’71 ha scavato nel torbido e portato alla luce la verità, il vero tema del film, il suo vero cuore. Certo, Peabody da buon autore di reportage snocciola abilmente un ripasso che va dagli attacchi contro i civili vietnamiti malamente coperti dal governo di Lyndon Johnson alle “verità inconfutabili e provate al di là di ogni dubbio” che Colin Powell inventava di sana pianta per giustificare l’attacco all’Iraq di Saddam, passando per il Nobel per la Pace a Obama proprio mentre cercava di legalizzare l’omicidio a distanza con i droni, per lo scandalo NSA, per le fosse comuni nelle quali vengono impunemente scaricati i clandestini messicani che non sopravvivono al deserto, per la sostanziale complicità americana nella distruzione saudita dello Yemen, per i deliri murari di Trump e per il Watergate dell’impeachment di Nixon, risalendo fino al massacro di Cleveland nelle raffinerie di Rockefeller del 1904; così come dall’altra parte racconta vita e imprese cronistiche di Stone lasciando voce e spazio a chi porta avanti personalmente il reportage e il giornalismo indipendente sulla sua scia, da Carl Bernstein a Matt Taibbi, da Cenk Uygur a Amy Goodman, da tutto lo staff di Democracy Now a John Carlos Frey e Jeremy Scahill.
Ma, al di là della suo forma a metà fra il thriller e l’inchiesta, non è il reportage puro il vero punto di All governments lie: truth, deception and the spirit of I.F. Stone, quanto piuttosto un interrogarsi sull’etica giornalistica e sul ruolo stesso del giornalismo nella società. Perché, mentre il giornalismo indipendente indaga sul campo alla ricerca della verità, il giornalismo mainstream che riporta fedelmente come un ufficio stampa le parole fasulle e interessate messe in bocca dal governo, non solo fa (in)consapevole disinformazione, ma si rende in un certo senso complice di queste bugie e di tutto il torbido e criminale che coprono. Fino ai casi limite, nei quali il giornalismo indipendente è riuscito a provare che “gli esperti” invitati in massa dai principali network televisivi erano stati preventivamente istruiti – e spesso prezzolati – dal Pentagono e dalla Casa Bianca.

All governments lie: truth, deception and the spirit of I.F. Stone racconta le inchieste più scottanti, il giornalismo come vera e propria funzione sociale nel rivelare la verità, ma anche il giornalismo come missione, vero e proprio scopo di vita, per cui lavorare su una storia è un diritto/dovere che può durare settimane, mesi, anche anni se necessario, ma la verità deve venire alla luce. Ben sapendo che “Tutti i governi mentono”, I.F. Stone non si presentava nemmeno alle conferenze stampa, ma andava direttamente negli archivi a spulciare i documenti, a notare le incongruenze, a cercare di tirare fuori la verità dalle righe. Uno dei suoi motti era di andare sempre direttamente a pagina 17 dei faldoni, perché è più o meno da quelle parti che, nel mare di bugie, può essere nascosto quell’unico barlume di verità sul quale iniziare a lavorare, e ancora adesso tutto lo stuolo di informazione lontana dalle major americane così si muove per smascherare il potere a costo di incorrere in censure, programmi sospesi e cancellati, licenziamenti e allontanamenti dalla troppa – e quindi pericolosa – visibilità. È la differenza fra chi vuole far emergere la verità e chi si mette al servizio delle verità di comodo, rendendo alla comunità un servizio superficiale, fazioso e non di rado disonesto; è l’importanza, tanto per riprendere una polemica andata in onda negli scorsi giorni sulla pubblica piazza di Facebook e che non tutti capiranno, di scrivere liberamente per “pizzaefichi.com” anziché con limiti e forbici per grandi e diffuse testate.
E questo, che è il punto più interessante di un film documentario che per il resto svolge, fra musiche asfissianti e montaggi alternati, un lavoro giornalistico che in sostanza poco aggiunge a ciò che già si sapeva, è paradossalmente anche il suo principale limite. Se non altro perché nello stuolo di intervistati, fra giornalisti che svolgono onestamente il proprio lavoro contro tutto e contro tutti con le parole o con le immagini, c’è anche chi è fazioso dall’altra parte, chi rinuncia all’etica che tanto sbandiera non trovando vere prove a supporto di quello che dice, ma costruendo deliberatamente la verità che vuole portare avanti. E non ci riferiamo a Laura Poitras, mostrata con il giusto Oscar in mano per Citizenfour che ha svelato la raccolta illegale di informazioni da parte della NSA ma successivamente caduta con Risk in una sostanziale riproposizione dello stesso schema che finisce per glorificare l’ambiguo Julian Assange e la sua altrettanto dubbia Wikileaks, quanto all’imperdonabile Micheal Moore, documentarista di finzione e militante della propria scuola di pensiero, da sempre pronto, al di là della condivisibilità o meno delle tesi che porta avanti, a farsi ben pochi scrupoli nel mettere in scena con gran dispiego di retorica (altre) bugie di comodo, (altre) mezze verità, (altre) voragini etiche impossibili da riempire. E qual è la differenza, al di là dell’opposta parte da cui cantano le sirene della menzogna, fra il cinema di Michael Moore e le false prove snocciolate da Powell ai tempi di Bush figlio? Qual è, a livello etico, la differenza fra maneggiare stereotipi e costruire dialoghi “documentaristici” di scandalo per indirizzare il pubblico e fabbricare prove sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq, quando in realtà si vuole solo rovesciare Saddam, perché la cittadinanza si convincesse della necessità del conflitto in Medio Oriente? Certo, sono ben più gravi le bugie di Stato che mandano le persone a morire, ma nel momento in cui uno dei punti principali di All governments lie: truth, deception and the spirit of I.F. Stone è che chiunque o quasi menta in rapporto proporzionale al proprio potere, il potere cinematografico di Michael Moore è ben lontano da quello di un Segretario di Stato statunitense, ma è tranquillamente paragonabile a quello dello sceriffo che nega, svelando inconsapevolmente tutte le sue menzogne, di essere complice della sepoltura illegale e disumana dei clandestini in Texas e Arizona. Si tratta sempre di fabbricare il consenso, di confondere la propaganda con il giornalismo, e non basta criticare il potere e la società per non essere come loro, ma bisogna farlo in maniera inattaccabile. 
In maniera analoga, All governments lie: truth, deception and the spirit of I.F. Stone parte da una posizione sicuramente condivisibile e fa un lavoro indubbiamente interessante nell’interrogarsi sull’etica di un mestiere attraverso i fatti e le personalità di chi li ha portati alla luce, ma manca di capacità di discernere fra l’ottimo giornalismo indipendente e il pessimo giornalismo sedicente indipendente che in realtà è solo un ribaltamento retorico/politico di ciò che sostiene di combattere, una rielaborazione dei fatti, un modo interessato di fare (dis)informazione. Peabody finisce per fidarsi, per credere forse fin troppo alle storie svelate dai giornalisti suoi colleghi, per porsi contro chiunque sia potente anche a costo di stringere inconsapevoli alleanze con altri tipi di oscuri e ambigui potentati, questa volta cinematografici. E del resto, i pregi e i difetti del film di Peabody erano già stati in un certo introdotti dalla sua prima schermata, “prodotto da Oliver Stone”: All governments lie: truth, deception and the spirit of I.F. Stone è un film interessante, a suo modo “dal basso”, che vorrebbe tanto essere sincero e che cinematograficamente fa pure il suo lavoro, ma finisce in sostanza per rivelarsi un po’ troppo “grillino”, “travagliesco”, di un retorica a metà strada fra la verità e la manipolazione, talmente “contro” da fare l’intero giro e finire per (auto)celebrare un’intera categoria. Anche chi con l’etica e la verità, ovvero gli argomenti e gli obiettivi da perseguire, c’entra molto poco.

Marco Romagna