ALIZAVA (2021), di Andrius Žemaitis

Basta un pugno di sabbia, per filmare la friabilità della memoria. Basta osservarla mentre passa da una mano all’altra, da un uomo all’altro, da un corpo all’altro, da una generazione all’altra, mentre inevitabilmente a ogni passaggio si perde qualche granello e il mucchietto si erode fino a dissolvere il ricordo nella polvere, smarrito per sempre come un fantasma che forse mai troverà la sua definitiva quiete. Non serve altro, per introdurre Alizava. Né una schermata produttiva, né un cartello di alcun tipo; perfino il titolo può tranquillamente aspettare, per poi materializzarsi sullo schermo solo dopo qualche minuto. Al giovane regista lituano Andrius Žemaitis è più che sufficiente la metafora – chiarissima, polverosa, materica – da cui prenderà le mosse il dialogo impossibile fra una bambina orfana e il padre che non ha mai conosciuto. Del resto, a ben vedere, tutto in Alizava nient’altro è che la continua ricerca di una fisicità attraverso cui riuscire a lambire, osservare e magari attraversare i confini. Quello fra il passato e il presente, quello fra il sogno e la realtà, quello fra la vita e la morte, quello fra il moto e la ieraticità, quello fra il mostrato e il fuori campo, quello fra un modo e l’altro di pensare il cinema. Dalla granulosità tattile della sabbia e del fango fino alla pasta acustica del canto quasi ultrasonico con cui rimettere in comunicazione i due mondi fino a raggiungere l’invisibile, passando per gli oggetti e per i corpi, umani o animali, intrappolati nella matericità viva e ipersatura dell’emulsione 16mm Kodak. Una scelta, quella di girare in pellicola nei bordi stondati del mascherino 4/3, assolutamente coerente e necessaria, per molti versi obbligatoria per poter realmente completare il discorso. Tanto che forse non è il rincorrersi di vita, morte, memoria e aldilà il vero motivo che rende sin dalla primissima inquadratura i quaranta minuti scarsi di Alizava così affascinanti, ma la capacità dell’esordiente Žemaitis di re-immaginare il cinema, di giocare con i generi e gli immaginari, di rendere ogni singola inquadratura così smaccatamente tattile, da qualche parte fra la meraviglia del realismo magico zavattiniano e la poetica di innocenza e nature morte di Víctor Erice (del quale, forse la più bella in assoluto fra le possibili sorprese cinefile, dopo 30 anni di silenzio è stata da pochissimo annunciata la preproduzione del quarto lungometraggio), o ancora fra le lande fangose di Andrej Tarkovskij e gli oggetti in moto perpetuo di Jan Švankmajer. Alla ricerca di un’insistita vertigine che a più di un sospiro caravaggesco alle visioni di Alfred Hitchcock (con tanto di quasi-citazione dello chignon di Vertigo) coniuga nella pista sonora rumori amplificati, minimalismi dark e acuti noise di lynchana memoria, per innestarsi nella quotidianità solo apparentemente spensierata di una novella Pippi Calzelunghe (o forse di una novella Heidi, o ancora di una novella Alice che ancora una volta guarda dietro allo specchio) mentre saltella alla ricerca di chi non c’è più, lungo il confine fra la vita e la morte là dove il sacro incontra il profano, dove le lande del western incontrano la perturbazione dell’horror, dove il documentario entomologico vira verso l’ectoplasmico secondo Kiyoshi Kurosawa, o forse verso il dolce e grottesco di un cono da cantiere che per un attimo, in qualche modo ridiventa giocosamente il cappello dell’Apprendista stregone disneyano.

È per questo che forse, a suo modo, Alizava è prima di tutto un film sul cinema. Un film sul senso più intimo e profondo dell’immaginario, sulla rievocazione e rimodulazione del passato, sulla necessità di (ri)creare e di esibirsi (fosse anche di fronte a una platea immaginaria) per poter raggiungere l’impossibile, per poter realizzare un sogno a costo di passare per l’incubo. Un film che ragiona sulla memoria polverosa degli oggetti creando memoria polverosa su un oggetto, fra il casellario nella vecchia casa abbandonata che diventerà cimitero di insetti e la stanza divelta dalla loro residua voglia di vivere, fra gli ingranaggi dei macchinari che scavano la terra definitivamente appiattendo quello che era il paesaggio e l’occhio della macchina da presa immobile a contemplarne il lavoro e la materialità, la tridimensionalità degli schizzi di fango, la consistenza stessa del terreno che, proprio come il ricordo, progressivamente si sfalda e si appiattisce in una nuova tabula rasa. Un film di fissità nel moto e di moto nella fissità, fra le panoramiche a 360° all’altezza delle mani o dei volti e l’assoluto rigore dei punti di vista da cui osservare i gesti e il quotidiano, i nuovi germogli che timidamente cercano di nascere dalla spianata di argilla, le pagine degli erbari, i nidi di vespe, i nomi sui cartellini, gli stantuffi del braccio meccanico. Un po’ come quando la cinepresa rimane ferma all’interno della gigantesca casa-escavatrice in cui Alizava vive e gioca con il nonno, mentre il “suo” mondo scorre deserto e circolare all’esterno delle vetrate. Un mondo di provvisorietà, in cui rimangono ancora visibili gli ultimi scampoli di un passato che il bulldozer sta rimuovendo ma ancora non si capisce che cosa verrà costruito in futuro su quelle stesse terre. Un mondo materico e misterioso, in cui ogni singola azione è puro senso del tatto (le scarpe infangate da lavare, i cassetti da aprire e da richiudere, i carapaci degli insetti dolcemente riposti sul davanzale, ma anche le sedie vuote che diventano coreografia) e una stanza diroccata poco oltre la ferrovia sarà il luogo di incontro fra i corpi e le anime, fra l’immaginazione e la Fede, fra il gioco e la liturgia, fra la realtà e l’invenzione. Ma anche un mondo di solitudine, in cui gli altri esseri umani, sempre ammesso che realmente ce ne siano, rimarranno ai limiti del fuori campo, protetti dalle mura inviolabili della scuola in attesa che le lancette del vecchio orologio da parete scandiscano la fine della giornata. Esterni al mondo della piccola Alizava, alla voce narrante del padre mai conosciuto e cercato in ogni oggetto, e soprattutto al suo mistico e personalissimo rito infantile con cui cercare la vita e la morte, e quindi (in)consapevolmente “fare cinema” con le sue illusioni e le sue speranze, con la sua immaginazione fra gli speaker della radio e con quel leggero e conciliante scrollare del treno. Sullo schermo del Teatro Sperimentale di Pesaro, in concorso nell’edizione 2022 della Mostra del Nuovo Cinema e vincitore del Premio della Giuria SNCCI, non serve altro che la bambina nel suo ambiente incerto fra quello che era e quello che sarà, non serve altro che il silenzioso nonno come unico nucleo familiare rimastole vicino, non serve altro che le sue carcasse di insetti in cui cercare un ponte fra la vita e l’aldilà. Non serve altro che i suoi fantasmi da evocare, forse l’unico modo per essere certa di non dimenticarli. Forse sono proprio lì, già di fronte a lei. Un padre con cui finalmente poter parlare, una madre teneramente a fianco. Due anime che hanno trovato un cuore, fra chissà quanti altri volti ormai sbiaditi e senza nome che tentano invano di rivendicare il loro posto almeno in un ricordo. In un pugno di sabbia destinato a perdersi nel deserto, due granelli sembrerebbero avercela fatta. È solo un sogno? Forse, può darsi. Ma, anche se fosse… che male ci sarebbe a risvegliarsi felici?

Marco Romagna