Le problematiche dell’adolescenza, le incomunicabilità, i conflitti generazionali, il bisogno di sentirsi accettati e protetti, la gravidanza svuotata di ogni coscienza e usata come privilegio, i rapporti che si evolvono, l’egoismo, l’anaffettività di chi ha bisogno di affetto, e poi la scorciatoia della menzogna, centro focale di un microcosmo ancora in formazione. Ma non c’è reale cattiveria, nei sedici anni bugiardi e manipolatori di Alice, non c’è reale crudeltà nelle sue azioni e nelle sue decisioni, non c’è reale ferocia neppure nei suoi comportamenti più perversi e apparentemente sadici. C’è solo l’incoscienza di quella che è ancora una ragazzina frivola e viziata, c’è solo la fragilità di chi è insicura e profondamente immatura, e proprio per questo, ben al di là del suo vivere tutto come un gioco, ha il bisogno di sentirsi al centro del mondo, coccolata, difesa, accudita, covata da quel ventre che l’ha cresciuta con amore ma non l’ha portata in grembo. Ha sempre sofferto l’abbandono subìto nella primissima infanzia da parte dei genitori naturali, Alice, e non ha mai accettato fino in fondo quelli adottivi, ormai separati fra madre da sempre sterile e padre vacanziero che vive con la sua nuova fiamma senza quasi mai farsi sentire, e i loro scatti autoritari in risposta alle sue più arroganti, (im)motivate e irritanti ribellioni. Tanto che, per lo spettatore, è difficile parteggiare fino in fondo per lei. Ma non è certo il giudizio morale il punto di Alice T., nuovo lavoro di Radu Muntean presentato in concorso al 71mo Locarno Festival. Anzi, è proprio nelle dicotomie etiche e umanamente disumane di una ragazza viziata e (ancora) superficiale che il film del grande autore rumeno trova i suoi maggiori spunti di interesse, riuscendo a scattare un’istantanea piccola e sincera quanto straordinariamente acuta e accorata dell’adolescenza, quel periodo in cui per tutti, chi più e chi meno, gli ormoni e i neuroni tardano a trovare il loro punto di equilibrio. Un periodo in cui si (s)ragiona, un periodo di eccessi e di incomunicabilità, un periodo di chiusura in se stessi mentre si indossa la maschera più estroversa e innocentemente (?) arrogante, un periodo di lacrime e di dispetti a sostituire la comunicazione verbale.
Perché è un personaggio complesso, quello della giovane protagonista, una ragazza problematica fatta di risposte piccate e di realtà plasmate a piacimento per il solo bisogno di detenere un controllo, di esercitare un potere, di affermare la propria autonomia aggredendo e calpestando, anche gratuitamente, chi le sta intorno. Litiga per i corridoi con le compagne di scuola, innervosisce scientemente professori con comportamenti da bulla per poi sovradimensionare le loro quasi paterne prese per un braccio tentando di millantare maltrattamenti, non valuta le conseguenze delle sue azioni vedendo e analizzando solo parzialmente la realtà, si concentra sul presente senza nemmeno pensare all’esistenza del futuro. E lo fa non tanto per riallacciare quei rapporti familiari ormai (comprensibilmente e giustamente) sfilacciati rispetto al caldo cordone ombelicale dell’infanzia, ma per un motivo ancor più immaturo ed egoistico, per potersi porre al centro dell’attenzione, per essere ancora e più che mai viziata, per ribadire costantemente, ogni giorno, quella stessa centralità che intelligentemente Muntean le riserva nella maggior parte delle inquadrature. E ovviamente, nella sua completa e totale incoscienza, del bambino che porta in grembo ad Alice non può fregare di meno. È al massimo un gioco, un modo per sentirsi grande, un’occasione per prendersi tutto quel surplus d’amore e protezione che ogni donna incinta, specialmente se ragazza e sola, riceve dalla sua famiglia. Tanto da continuare indefessa a fumare e a bere, tanto da non guardare nemmeno lo schermo durante la prima ecografia in cui l’emozione è a esclusivo appannaggio della generazione precedente, e tanto da non esitare a sbarazzarsi quanto prima del feto, ma in silenzio, continuando a sfruttare quei diritti ormai per lo meno temporaneamente acquisiti.
Si apre con i capelli di Alice tinti di uno sbarazzino rosso fuoco il nuovo film di Radu Muntean, cucito inquadratura dopo inquadratura sulla straordinaria interpretazione di un’esordiente Andra Guți disposta a offrire corpo, anima e lacrime per la causa, e si chiuderà con un lungo e potente pianosequenza sui suoi occhi lucidi e sui singhiozzi della sua (tardiva/precoce) disperazione. È seduta al tavolino di un bar durante l’ennesimo giorno di scuola saltato a piè pari, e nel suo ingenuo sottovalutare la vita ha già deciso senza nemmeno rifletterci più di tanto e senza remore di non tenere il bambino. Ma quando la madre scoprirà, fra diverbi, telefoni ritirati per punizione e inequivocabili messaggi che appaiono sul display, della gravidanza della figlia, Alice si renderà conto di non essere più (o meglio, secondo quel passaggio logico che ancora le manca, di non sentirsi più considerata) la «Ho cresciuto una puttana» dei litigi, ma l’oggetto prezioso e indifeso, contenente un oggetto ancora più prezioso e indifeso, da coccolare e salvaguardare a ogni costo. Non solo da parte della madre, a cui la possibilità di avere un bambino è stata negata dalla sfortuna e dalla natura, ma anche da parte di un padre quasi perduto e ora apparentemente ritrovato nei suoi inviti a weekend nella casa al mare. Quasi come se il feto portato in grembo fosse il grimaldello per spalancare quella porta del cuore che Alice, poco importa quanto a torto e quanto a ragione, vede se non proprio inchiodata per lo meno socchiusa. Fra rapporti che si riallacciano e la poetica cinematografica dei vestiti nuovi comprati insieme per una condivisione anche materiale fra madre e figlia, la gravidanza/non-gravidanza diventa per Alice immunità, manipolazione, gioco (an-affettivo) di potere, privilegio, moneta di scambio. E ovviamente menzogna, con la decisione di fingere di essere ancora incinta anche dopo l’aborto farmacologico consumato in gran segreto a casa di un’amica, con cui la protagonista ritorna paradossalmente a ricalcare e perfezionare quella storia della madre naturale, mai conosciuta, che l’aveva abbandonata appena nata in un periodo nel quale in Romania l’interruzione volontaria di gravidanza non era ancora stata legalizzata. Come se i nodi, alla successiva ecografia, non fossero destinati a venire al pettine, fino alle inevitabili lacrime – sospese fra i sensi di colpa di chi ha abortito e il pentimento di chi ha ingannato e deluso ancora una volta le aspettative di chi lo ama, ma probabilmente anche la meno nobile consapevolezza di non poter più continuare a mentire e ad approfittare della gravidanza – che Alice, banalmente, non aveva messo in conto. E forse sta(rà) qui la sua evoluzione, destinata a rimanere fuori campo. Perché no, Alice T. non è un film sul cambiamento, ma sul momento immediatamente precedente, quello della gioventù ribelle, quello delle (in)comprensibili turbe e delle incomunicabilità adolescenziali, e solo sul magnifico pianosequenza finale quello in cui, traumatica, prima o poi dovrà giungere un principio di consapevolezza.
Si dipana in un arco temporale di poco più di venti giorni Alice T., sorta di controcampo del precedente One floor below con cui uno dei capofila del Nuovo Cinema Rumeno continua sulla strada di quel cinema acuto ed essenziale, inizialmente partito dalla riflessione sul post-Ceaușescu per poi posare il suo sguardo intimo e discreto sul (neo-neo)realismo delle microstorie personali e sui piccoli stravolgimenti del quotidiano. Si dipana nel tempo che intercorre fra il primo e il secondo appuntamento dalla ginecologa, quello che metterà fine alla bugia, ed è fatto di frammenti, di istanti, di digressioni, di situazioni (extra-)ordinarie, fra la casa e la scuola, fra l’ecografia e la cena al mare, fra l’aitante istruttore di kitesurfing al quale mostrare il seno su Whatsapp giocando alla donna emancipata e l’assenza di pentimento nella consapevolezza di aver scatenato gratuitamente le gelosie della sua fidanzata, fra i film russi in televisione con i quali mascherare il sanguinamento dopo l’aborto a un padre che rincasa nel momento meno opportuno e le convocazioni dalla preside con le quali, pila di note di demerito alla mano, si chiede alla studentessa ingestibile di cambiare istituto fino a quell’agognato intervento a gamba tesa per difenderla della madre. Radu Muntean, quasi a voler aggiungere forza centrifuga alla struttura sempre rigorosa e generalmente monolitica su cui si fonda la contemporanea Nouvelle Vague autoriale di Romania, costruisce un percorso che possa abbracciare tematiche e situazioni differenti, dalla scuola alle amicizie, dal nucleo familiare alle generazioni ancora precedenti e successive, dalle vacanze al mare alla sanità nel Paese, ma intelligentemente li utilizza quasi come fossero McGuffin hitchcockiani subordinati all’obiettivo principale, la mimesi dell’adolescenza e della quotidianità, (ri)portando a tratti il pubblico a quella stessa confusione e indecisione della pubertà ma al contempo non rischiando di disperdere nelle sottotracce la concretezza e il potenziale di un film rigoroso e sincero, sorretto da un monumentale esordio attoriale e da una lucidità straordinariamente intelligente nel dipanare la matassa dell’adolescenza. Il resto è il solito e sempre ottimo bilanciamento di dolore e ironia al quale il Nuovo Cinema Rumeno, da ormai quasi vent’anni e con ormai quasi due generazioni di autori, ci ha abituati. Confermandosi ancora una volte, qualora ce ne fosse ancora il bisogno, come quella che è nettamente la più preziosa, interessante, coerente, corposa, acuta, umana e poetica fra le cinematografie europee contemporanee.
Marco Romagna