ALDEVARAN (1975), di Andreas Thomopoulos

La mia generazione ha visto
migliaia di ragazzi pronti a tutto
che stavano cercando
magari con un po’ di presunzione
di cambiare il mondo
possiamo raccontarlo ai figli
senza alcun rimorso
ma la mia generazione ha perso
.”
Giorgio Gaber, La razza in estinzione

Visto retrospettivamente, Aldevaran è un film capace di andare ben oltre la vicenda narrata, ben oltre la tenera e poetica riflessione giovanile sulla morte messa in scena, ben oltre la contemporaneità perfettamente fotografata dell’anno di realizzazione. Visto quarant’anni dopo, il film di Andreas Thomopoulos si rivela infatti capace di rompere le barriere del tempo, uscire da quegli anni Settanta insanguinati dalla dittatura dei colonnelli, per incastrarsi con un’inquietante perfezione anche nella Grecia odierna (per non dire in tutta l’Europa), nazione ferita da default economici, asfissianti politiche di austerity e preoccupanti focolai di estrema destra popolar-populista legittimati in strada e in Parlamento. Nel paese immaginario che dà il titolo al film, Aldevaran, si rispecchiavano gli sporchi sobborghi ateniesi del ’75 esattamente come ci si ritrova oggi nelle immagini di povertà e disperazione; nei tre personaggi principali si ritrovano gli eroi ed antieroi metropolitani che continuano a sopravvivere, ai margini, in un ambiente ostile che non li legittima socialmente; nei minuziosi controlli di polizia di allora si rivede il clima di terrore di pochi mesi fa, le rivolte della popolazione, le repressioni violente, l’avanzare di alba dorata, le scissioni di Syriza e i referendum di Tsipras. E poi ancora l’austerity, dove il confine fra la cura e il male è quantomai labile.

Ma andiamo per ordine, perché ovviamente la pellicola riproposta al DocLisboa 2015 parla di tutt’altro. Innanzi tutto, Aldevaran è un film figlio di un’intima urgenza. Ogni singola inquadratura trasuda la necessità di raccontare e mostrare una situazione, la necessità del cineasta di esprimere il proprio intimo disagio, la necessità di sperimentare nuove forme per farlo, la necessità di rompere gli schemi e la linearità, la necessità -perché no?- di uscire dalla realtà. In una Grecia che, dal dopoguerra, aveva visto in rapida successione una guerra civile e il colpo di stato parafascista del ’67 che diede inizio a sette anni di regime militare, in barba al passaggio dalla monarchia alla repubblica, il Cinema nel paese appena liberato era una via di fuga prima ancora che una memoria storica, una ricerca dell’esistenziale e del metafisico come necessario distacco per poter ragionare su una realtà troppo opprimente, l’elemento surreale come orizzonte di evasione. Nello specifico, per il regista Andreas Thomopoulos appena rientrato in patria dopo gli studi a Londra, questo film è stato forse anche un modo per riappropriarsi della propria terra, in altalena fra la cultura millenaria dietro alle spalle e il degrado davanti agli occhi. Nella vita condivisa dai coinquilini Dimitris, poeta di strada e di balera al quale viene diagnosticato un male incurabile con soli due mesi residui di vita, Magdalene, prostituta dalla straordinaria umanità, e Chris, musicista rock con pochi soldi e molte serate, si respira l’atmosfera agghiacciante di chi vaga emarginato e moribondo per una città che sta morendo con lui. Eros e Thanatos sembrano vorticare intorno ai personaggi, si meticciano ed entrano nelle viscere, stimolano la fantasia, stimolano la poesia, stimolano la musica. Stimolano il sogno. Le performance insieme in balera di Chris e Dimitris sono l’urlo di una generazione emarginata, il manifesto di una classe sociale che solo nelle stelle più luminose può trovare legittimazione, perché sulla terra non pare esserci spazio. Thomopoulos incornicia in un bianco e nero sporco e nervoso una narrazione non lineare, fatta di sbalzi, salti, cambi di ritmo, amarezza, ma anche amicizia e straziata umanità: un’elegia funebre poetica e sgraziata sull’ineluttabilità del destino, ma anche un mosaico sentimentale e sperimentale sulla necessità di cambiare una società putrescente, ancora legata al recente e poco felice passato nel quale ogni controllo dei documenti è un abuso di potere, e ogni giro in automobile un reale rischio in un clima di odio e sospetto. Per il poeta l’unica certezza, in fondo, è la morte, ineluttabile e da accettare, ma non bisogna mai sottovalutare l’amore, e anche gli ultimi due mesi di vita in povertà e in un postaccio possono diventare l’occasione per ritrovare la dignità e la piena libertà come individuo. Fino a poter tornare, cullato dagli incalzanti minori della penetrante colonna sonora, a riveder le stelle.

Sembra assurdo che una cinematografia così smaccatamente protesa verso il decoro e la dignità umana -non solo Aldevaran, ma anche e soprattutto i film di Theo Angelopoulos sono squisitamente emotivi e significanti- possa essere sfociata in un cinema freddo, giudicante, gigione, anaffettivo e autorefereziale come l’attuale new wave ellenica. Sembra impossibile, di fronte al cinema greco antropocentrico e poetico degli anni Settanta, che adesso siano oscuri personaggi come Avranas, Lanthimos e la Tsangari a “tener lo campo”, con il loro ammiccare provocatorio e la loro presunta superiorità e intoccabilità. Sembra folle che si sia perso per strada l’essere umano, alla ricerca dell’affermazione personale di un cineasta egocentrico a cui poco importa di calpestare tutti coloro che potrebbero essere d’intralcio. Ma questa, per fortuna, è un’altra storia, un tarlo che si presenta a posteriori ma che non c’entra con il film di Thomopoulos. Piuttosto, con Aldevaran, c’entrano le troppe storture politiche e sociali che in quarant’anni si sono forse evolute, ma non sono in sostanza cambiate, ancora pronte a riscuotere il loro tributo in povertà e rabbia. Piuttosto, nel film di Thomopoulos, convergono le crisi economiche e sociali di ieri e di oggi, si rispecchia il triste avvicendarsi di generazioni ancora giovani eppur già sconfitte. In fondo, Aldevaran visto oggi è la città che muore con il protagonista, al contempo ricordo e profezia di quello che non vorremmo essere, ma che non possiamo fare a meno di scorgere subito oltre il nostro naso. E la colpa di questo immobilismo, probabilmente, è anche nostra.

Marco Romagna