Nel luccichio del mondo festivaliero, non è affatto raro che alcuni film vengano esposti, dal pubblico e dalla stampa, al pubblico ludibrio. Una pratica di per sé irrispettosa, barbara e probabilmente sbagliata, ma parte in sostanza inevitabile di un gioco dove spesso appaiono sullo schermo film privi di qualsivoglia interesse, raffazzonati, inconsistenti per concetto e messa in scena, scritti e girati senza una direzione né un’idea valida fino a sconfinare nel patetico o nell’offensivo. Film pervasi da una comicità involontaria in quelli che vorrebbero essere i picchi emotivi, dove nemmeno il gusto per il trash può bastare a trovare sopportabile la poltrona -spesso scomoda di per sè- sulla quale si sta seduti. Film durante la proiezione dei quali serpeggiano per la sala risatine ironiche e battutine facili, reazioni nervose tutto sommato comprensibili di fronte a pretenziosità non supportate da una reale capacità di narrare per immagini. È successo all’ultima Venezia al nullo The Endless River, è successo nelle edizioni passate della manifestazione lidense con le ormai storiche proiezioni ufficiali di Ovunque sei e Il grande sogno, infelici incursioni di Michele Placido nel cinema d’autore, è successo a questa Roma10 allo scult Game Therapy e al delirante Le Roi du Monde guardabile solo per la presenza nel cast di Eric Cantona, come è successo lo scorso anno all’indecente Mio papà di Giulio Base. Ma ci sono casi nei quali questo gioco al massacro scatta nei confronti di film che sostanzialmente non lo meritano, film magari imperfetti, magari altalenanti, magari anche brutti, ma non certo da stroncare in toto, né da accogliere con ironia sardonica e robuste dosi di fiele. È il caso dei fischi ingenerosi e della maleducazione in sala alla prima di E la chiamano estate di Paolo Franchi, vero e proprio scandalo comportamentale della kermesse romana edizione 2012, così come oggi pare ingeneroso (anche se, fortunatamente, senza episodi particolarmente deprecabili di fischi e insulti) l’attacco quasi unanime ad Alaska, ultimo parto creativo di Claudio Cupellini. Un film sicuramente non esente da difetti ma capace di momenti di assoluta sincerità e genuina emozione, un film a tratti forzato, sbrigativo e didascalico ma non privo di diversi punti di interesse sociale, un film non (totalmente) riuscito ma per molti versi difendibile e che quindi, vista la ferocia degli attacchi multidirezionali, ci sentiamo di difendere come una voce fuori dal coro pur consci dei suoi grossi limiti.
Il grave errore di Cupellini, già autore dell’ottimo Una vita tranquilla, è stato fondamentalmente uno solo: Alaska è un melò a toni noir in sostanza esagerato, un fiume fuori controllo, pronto a sacrificare per lunghi tratti la credibilità della vicenda narrata alla ricerca disperata di un’emozione e di una situazione significante. Trovandone, ma spesso a costo di esagerare. Non è semplice, in effetti, entrare in un film nel quale i personaggi non paiono avere raziocinio, non pensano e troppo puntualmente sbagliano, guidati piuttosto da improvvisi scatti di rabbia o di gelosia, o ancora da improvvisi slanci di pietà e bontà ingenua. Non è semplice accettare l’apporto nullo o quasi di personaggi secondari che appaiono e spariscono all’improvviso (emblematico in questo senso il non-ruolo interpretato da Marco D’Amore), come non è semplice accettare una successione esasperata di eventi e situazioni fuori dalle righe, dialoghi troppo spesso telefonati o forzati e un finale, questo si, terribilmente didascalico e macchinoso nella ricerca di un happy ending non necessario, atto a cercare di creare una circolarità inutile ad una vicenda che aveva già detto tutto, e meglio, qualche minuto prima.
Non sono pochi, in effetti, i limiti di Alaska, ma sarebbe ingeneroso unirsi al coro dei detrattori che pare volerne ignorare, dall’altra parte, i non pochi punti di merito e interesse. Innanzi tutto, non si può negare la tenerezza di un amore matto e disperatissimo, nato per caso nel pomeriggio di un albergo parigino per essere portato avanti, fra alti e bassi, nelle disgrazie della vita. Un amore che forse non brillerà per credibilità, ma che una volta accettato riesce a rivelarsi totalizzante, folle ma puro, in grado di riempire il cuore e di far riflettere sulla complessità dei rapporti umani. Una sequenza in particolare, l’incontro subito successivo alla sequenza nella camera ardente, riesce a restituire sullo schermo un’intensità sublime non solo dal punto di vista emotivo, ma anche da quello più strettamente cinematografico, un abisso registico voluttuoso nel quale perdersi. Innegabile è poi la precisa coscienza politica del lungometraggio, scalata e declino di due “morti di fame” alla scoperta dell’effettiva impossibilità di elevarsi dalla propria classe sociale. Infatti gli amanti passano anche momenti alti (lei che diventa modella, lui che riscuote successo con il locale) e occasioni (la ricca Francesca e la sua potenziale dote), ma alla fine si tornerà sempre al punto di partenza, e l’unica cosa che conta rimane l’amore. Ma quello di Cupellini è anche un focus sul carcere, luogo annichilente e senza tempo. Certo, in galera si consuma una delle sequenze meno riuscite del film, con l’aggressione a Fausto da parte del compagno di cella seguita da un suo repentino ed improvviso intenerimento al quale proprio non ha creduto nessuno, ma la necessità di avere qualcuno ad aspettarti fuori per non impazzire viene trattata con umanità pudica e ancestrale, fra lettere senza risposta e giorni che non passano mai, rivelando tutto il talento del regista nella creazione di emozioni. In ultimo, non manca neanche una lucida fotografia dei rapporti di amicizia, ora vera e ora presunta, ora sincera e ora interessata, fra improbabili associazioni per dare vita a un locale simbolo della rincorsa sociale e potenziali suoceri proprietari di una catena di alberghi a cinque stelle. Perché anche l’amore può essere interessato, ma non funziona di fronte allo scuotimento dei sensi e alla tragedia.
Nella vicenda di Fausto e Nadine, pur con tutti i difetti che è possibile trovare in Alaska, sta tutto il fallimento di un mondo nel quale, come Giovanni Verga insegna, ci si può al massimo illudere, ma non si può cambiare. C’è una netta divisione fra benestanti e poveri, e ogni tentativo di valicare questa linea di demarcazione è destinato a finire male, con lo sgretolarsi di una coppia, con i tradimenti della fiducia, dell’amicizia e del corpo, con il suicidio di un amico. Ma è nella natura umana (e nel capitalismo) che risiede la volontà di migliorare la propria posizione sociale, i propri guadagni, la propria vita: è semplicemente normale. Riuscirci, al di là delle illusioni, è un altro discorso, forse è impossibile. L’Alaska è il locale che Fausto riesce ad aprire a Milano con i risparmi di Nadine, un locale di successo, svolta dopo la povertà e il carcere, ma non gli basta e finirà per perdere tutto. Fra tira e molla amorosi, incomprensioni di varia natura, incidenti stradali, sesso e lutti, il film di Cupellini si rivela fra le pieghe non di rado confuse della narrazione una potente elegia della sconfitta, sguardo fortemente imperfetto ma amorevolmente paterno sulla fallibilità umana. Rispetto a Una vita tranquilla, la sceneggiatura di Alaska è un netto passo indietro, ma non si tratta del rovinoso ruzzolone che si fa a gara a dipingere. Alaska non è un bel film, pieno di errori anche macroscopici, strabico nella narrazione, forzato nello script, approssimativo nei dialoghi, altalenante e oscillatorio. Ma che sa alternare sequenze ai limiti dell’inguardabile a momenti altissimi e quasi inaspettati di straziante intensità drammatica. Pur nei suoi limiti, è un film vivo, pulsante, sincero, capace di incollare alla poltrona, emozionato e con qualcosa da dire, il che in fin dei conti non è così poco. I nostri nemici, insomma, quelli da esporre davvero al pubblico ludibrio, sono ben altri.
Marco Romagna