Alla primissima proiezione di Aggro Dr1ft, il volume era talmente alto che buona parte del pubblico ha passato metà film a tapparsi le orecchie. Appena cominciati i titoli di coda, l’ultima fila è esplosa in un verso di disapprovazione, mentre chi era seduto più vicino allo schermo in risposta ha applaudito fragorosamente. Sulla parete di CodaCons dietro la Sala Giardino, l’ironicamente soprannominato «muro del pianto» dedicato alle lamentele dei frequentatori del festival del cinema di Venezia, ci sono almeno una decina di fogli che nominano l’ultimo film di Harmony Korine presentandolo come di gran lunga il peggior film di tutto il festival. Su Letterbox, il sito di cinema più frequentato dalle giovani generazioni di cinefili (a cui Aggro Dr1ft è indirizzato), il voto più frequente è mezza stella su 5; ma il voto medio di tutti gli utenti è di 3 stelle. Cos’è che ha creato cotanta indignazione? E perché, invece, chi lo apprezza, lo adora?
«Go back to hell», «The old world is no more. There’s no more time. There’s no more truths», «I am the world’s strongest assassin». Queste sono alcune tra le frasi che vengono ripetute ossessivamente dalla voce narrante durante tutto il film. Una sceneggiatura quasi inesistente, una paginetta di deliri interiori, opinioni nichiliste sulla natura del mondo e dell’individuo nel mondo. Se non c’è più il vecchio mondo, se è finito il tempo, se si sono disperse le verità, che cosa si può raccontare? Korine, nelle interviste attorno ad Aggro Dr1ft, dice che non riesce più ad amare il cinema, che le cose vanno cambiate, che sono più visionari i videogiochi Call of Duty e GTA rispetto a tutto Spielberg. Che c’è un linguaggio da cambiare. Che il gaming è più stimolante e immersivo del grande schermo, che ormai propina un immaginario piatto e omologato, algoritmico, che racconta sempre percorsi da A a B. Ecco, la non-narrazione di Aggro Dr1ft fa un percorso che va da Z a Y, parte dall’apocalisse e pondera sul vuoto, mentre l’immagine è piena, drastica, una realtà fuori dalla messinscena.
«I’m a hero. A solitary hero», «I need to make money for my family», «I need a team of ten people». Una realtà capitalistica e decadente, la carne che si disfa e distorce, tutto è arbitrario. Korine ha girato Aggro Dr1ft con cineprese a infrarossi che rilevano il valore termico dell’immagine inquadrata. In questo modo, anche fare un documentario sul mondo che si ha sotto casa produrrebbe un’esperienza lisergica; ma a rendere questo sguardo inedito sul reale ancora più unico è anche il lavoro di postproduzione, tra la temperatura colore che diventa viva come il respiro di una persona, gli inserti computerizzati più vicini alla realtà aumentata che all’effettistica CGI a cui siamo abituati, l’intelligenza artificiale che inventa architetture criogeniche e circuiti cyber sulla pelle, sull’architettura, sullo sfondo dei personaggi. Negli ultimi anni, esclusi pochi casi quali ad esempio Fairytale di Aleksandr Sokurov, i registi d’autore del cinema disposti a confrontarsi con le nuove tecnologie e a rinnovarsi rimanendo entro la struttura del film sono una categoria che scarseggia. Molte di queste innovazioni sono difficili da ricontestualizzare, poiché sembrano appunto appartenere ad altri linguaggi: appunto il videogioco e la realtà aumentata, ma anche il VR, l’intrattenimento audiovisivo dei social (YouTube, TikTok, i filtri Snapchat, meme, deepfake), la mostra-installazione video. Come circoscrivere entro il cinema le forme d’arte che stanno soppiantando il cinema?
«That’s my pupil: Zion», «The Bible? You mean, the book?», «Dance, bitches. Dance, dance, dance, bitch». Un temibile sicario, il suo vice interpretato dal rapper Travis Scott, un antagonista muscoloso chiamato ‘Demon Child’ non creditato nei titoli di coda ma che si vocifera essere Curtis James Jackson III, in arte 50 Cent. Un enorme demone dalla patina videoludica appare, gigantesco, nel cielo, a intermittenza, su comando del protagonista, un sicario dall’estetica militarizzata, un agente del caos in un mondo vaporwave che procede coi ritmi della costante colonna sonora elettronica. Uno sputo negli occhi del pubblico: questo non è il reale, ma è uno sguardo sul reale. La voce narrante non interroga e considera la morale, è un’espressione di questo sguardo. Una manifestazione apocalittica, un’allucinazione psicotropa radicale come non lo è stato niente di ciò che è stato visto al Lido sinora. Molti si annoiano durante la visione (80 minuti di ripetizioni ossessivo-compulsive con stimoli visivi perpetui), reputano l’operazione vuota e prolissa; ma senza il vuoto, senza il prolisso, qual è il film? Aggro Dr1ft è un girone dell’inferno, un organismo entropico e irrazionale, un’opera sullo scarto tra reale e pensiero, tra materiale e mistico. Un film per le generazioni future.
«I love that bitch», «Did Julius Caesar write the Bible?», «I do it all for my children. My family is hope». Ogni cosa è eguale a essa stessa. Sterminare ogni pensiero razionale, per paragrafare Burroughs – un collegamento sensato, perché questa è poesia beat per il grande schermo, senza filtri. La carne si smaterializza, lo spazio-tempo si spacca in un flusso di montaggio che va per versi che non rimano e reiterazioni che implicano senza urlare. Non c’è significato finale, i barlumi di speranza sono illusori, il mondo diventa falsificazione, alterazione, deformazione di se stesso. A fanculo il postmodernismo, anche Spring Breakers si può superare, anche un affresco di cinema sperimentale può diventare un incubo materialista e volgare, un videoclip di meno di un’ora e mezza senza compromessi: si entra in una gabbia con un portale per un’altra dimensione, che esiste solo in questo film. Una dimensione che fa scappare la gente dalla sala. Una dimensione che rende indignati, o che gasa come se si fosse nel pubblico di un concerto, o che genera punti interrogativi infiniti e fa chiedere se si è davvero capito quello che si è visto. Ma non c’è niente da capire. C’è solo da considerare, riconoscere, immergersi. E se non ci si riesce, anche quello è giusto.
«God is love, love is God. Forever». Ma questo ‘forever’, questo ‘per sempre’, questo ‘sempre’, questi 80 minuti che passano in un attimo o sembrano non finire mai, questo non-tempo e non-luogo in cui succede un niente che sembra un’avventura eroico-mistica, questa vacanza allucinatoria è un modo di vedere la realtà che, sintonizzati alla stessa interferenza a cui si è allineato Korine, pare più reale del reale. È un miracolo che si può solo vivere, irrazionalizzabile, un purgatorio al neon con l’orizzonte sbilanciato, un’ode alla vita e alla morte. Ma forse le parole che meglio spiegano Aggro Dr1ft sono la sequela di frasette sconnesse con cui Korine stesso lo descrive nelle note di regia:
Tutto è vero, tutto è finto, il cinema è morto, viva il cinema. È giusto che Aggro Dr1ft non piaccia, perché non siamo pronti.
Nicola Settis