È stato necessario quasi un mese di pensieri, riflessioni e ripensamenti per poter digerire e ricevere completamente quell’opera viscerale e umanissima che è Afternoon, l’ultimo film di Tsai Ming-liang proiettato fuori concorso alla 72esima edizione del festival del Cinema di Venezia. Il film è stato presentato come un lungo documentario incentrato, come accenna il catalogo del festival, sul dialogo tra un uomo in fin di vita e l’uomo che ama di più.
Nel 2013, sempre a Venezia, Tsai era in concorso con Stray Dogs, un film che aveva presentato come la propria opera conclusiva, il proprio testamento, e che finì per vincere il Gran Premio della giuria. Eppure, da quando l’ha girato, Tsai è diventato quasi più prolifico, regalando al suo pubblico di affezionati vari mediometraggi basati sulla figura emblematica del monaco Xiaokang, interpretato dal suo attore feticcio Lee Kang-Sheng, protagonista di ben cinque piccoli film dal 2012 al 2015 (Walker e Diamond Sutra, 2012, Walking on Water, 2013, Journey to the West, 2014, No No Sleep, 2015), per poi tornare a sorpresa con un lungometraggio. Ma questo nuovo film di Tsai è un’operazione in cui non si era mai addentrato prima d’ora, ovvero appunto un documentario, ed un film estremamente personale, quasi sanguigno, che innanzitutto si apre con un’inquadratura che subito fa capire la direzione in cui l’opera è destinata ad andare: Tsai Ming-Liang e Lee-Kang Sheng in persona interpretano loro stessi, seduti comodi su due sedie vicine comunicando a vicenda, in un appartamento abbandonato e pieno di foglie, con dietro di loro finestre sulla natura che lasciano intravvedere l’esterno, un paesaggio. Tsai Ming-Liang è l’uomo morente e il suo attore feticcio è la persona che ama di più, l’uomo con cui ha convissuto per vent’anni e con il quale ha una delle più belle (e univoche) storie d’amore della storia del Cinema recente, o perlomeno di questo tipo di Cinema sperimentale, che mette in gioco e in immagini l’anima e il corpo in maniera così diretta. Il dialogo è una commossa e commovente (e lacrimosa) confessione d’amore di Tsai, a cui l’attore risponde in maniera imbarazzata, a volte anaffettiva, ricevendo senza dare. Tsai ride quasi istericamente, guarda in macchina parlando con la troupe, o guarda fuori dalla finestra, osservando quella natura o quel paesaggio che sull’orizzonte svanisce come uno sfocato e non delineato paesaggio leonardesco. Tsai accenna poco alla malattia che lo affligge (e che, dice, lo portò a decidere che Stray Dogs sarebbe stato il suo ultimo film: all’epoca la situazione fisica era più grave), ma ci tiene così tanto a imprimere in immagini e nel cuore suo e di Lee quello che dice da rendersi amabile sin dal primo istante. Del resto entrambi, diventando figure cinematografiche in mezzo alle rovine, si riducono volontariamente a fantasmi: l’emozione non può svanire, ma la fisicità sì nel momento in cui quella (brevissima) distanza tra gli enti filmici è così percepibile a livello proprio di anima, di cuore.
Il film di Tsai è un po’ una faccia di una medaglia la cui altra faccia è No Home Movie, l’ultimo film di Chantal Akerman visto quest’anno al festival del cinema di Locarno. Mentre la Akerman è un tipo di persona che filma quello che le capita attorno e, nel fare ciò, è finita quasi per sbaglio a fare un film su sua madre che possa sconfiggere (in immagini “finite”) la sua morte, Tsai decide di prendere il suo tempo per stabilire un’inquadratura “infinita” per far vivere al massimo il proprio amore. Non vuole neanche sconfiggere la propria morte, vuole solo (parole sue) «far nascere i film così, dal nulla, farli sbocciare come se fossero fiori» e intende con questa modalità portare ad un nuovo inizio di una nuova filmografia. E sono fiori che vengono dalla sua anima, dal suo cuore, dalla sua pelle. E la sua anima, il suo cuore e la sua pelle saranno coloriti e floreali finché ci sarà la linfa vitale nell’autore taiwanese, dedito al buddhismo: il campo fiorito del suo cinema potrà spegnersi solo quando la morte di cui parla lo spegnerà. Così forte è la dedizione dell’autore al rapporto tra il cinema e la vita.
A questo punto si può provare a rispondere al quesito che una volta è stato posto dallo stesso Tsai: il cinema vive quando non c’è più lo spettatore? Quando è immagine pura, senza bisogno di essere osservata, come il muro nel finale di Stray Dogs dopo che se ne sono andati tutti tranne le persone in sala? The Afternoon ha il potere, più che altro, di far vivere negli spettatori dei sentimenti sopiti, far rivivere la sincerità di un amore puro ed esplosivo che brucia l’anima degli uomini e li spinge a vivere di più. Soprattutto, ad amare di più. Quindi se lo spettatore vive quando vive la sua anima, il cinema di Tsai è rinato con un’esplosione vitale di quelle necessarie e definitive.
Nicola Settis