AFRIQUE. LA PENSÉE EN MOUVEMENT – PART 1 (2017), di Jean-Pierre Bekolo
“The problem of ideology … has especially to do with the concepts and the languages of practical thought which stabilize a particular form of power and domination; or which reconcile and accommodate the mass of the people to their subordinate place in the social formation“.
Stuart Hall
In questi giorni nei quali motti come “a casa loro!” paiono attecchire in maniera così drammatica ci sarebbe da chiedersi, non solo all’interno di un popolo ormai minorato quanto il nostro ma in tutto l’universo dell’occidente, perché “da casa loro” sempre più persone cerchino di scappare. Ovviamente stiamo parlando di migrazioni, quelle forzate, quelle necessarie e quelle drammatiche; non quelle che rivendichiamo noi, “generazione Erasmus” quanto mai viziata dalla tastiera come da esotismi privilegiati da fogli di carta accademici che ora cerca di indignarsi davanti a una tetra e generalizzata situazione politica e sociale, ma le migrazioni “reali”, di quelli che per migrare spesso muoiono, o almeno rischiano di perdere qualsiasi frammento di identità – senza contare affetti, speranze e tutti quei privilegi quotidiani che noi nemmeno più sappiamo di avere. Dico questo perché ho avuto la fortuna di incontrarli, i migranti, e di collaborare con loro, con quelli di casa. Da fervente e dichiarato internazionalista (specie ormai in via di estinzione, qualche domanda me la dovrei pure porre!) penso di non avere una “casa” mia e che loro abbiano lo stesso nostro diritto di stare qui, anzi probabilmente (se ragionassimo con la legge del taglione) ci dovrebbero pure schiavizzare per bene. Tolta la premessa, retorica quanto forse doverosa, dovremmo tutti iniziare a pensare di ribaltare almeno una volta il punto di vista, ed è proprio questo il punto di Afrique, la pensée en mouvement – part 1, nuovo lavoro del documentarista Jean-Pierre Bekolo presentato all’ultima Berlinale nella sempre (forse fin troppo) ricca sezione Forum. Ribaltiamo i rapporti, guardiamoci almeno per una volta con i loro occhi, proviamo a capirci dal loro punto di vista. Partendo da quel luminare (nero, inglese di origini giamaicane) della New Left inglese e rivoluzionario dei cosiddetti “Cultural Studies” che è stato Stuart Hall (già straordinariamente ritratto da John Akomfrah in un documentario di pochi anni fa, con le musiche di Miles Davis), emerge come tutto forse stia nel problema dell’ideologia, nel rapporto tra linguaggio e pensiero pratico, ovvero di ciò che ha costretto (e ancora oggi in molti casi costringe) popoli subordinati dalla dominanza, che devono ripartire proprio da una formazione sociale. È una questione di prospettiva, dunque.
Jean-Pierre Bekolo, a fine 2016, segue con la sua macchina da presa il “Workshops of Thought”, progetto dell’economista (musicista e poeta) senegalese Felwine Sarr in collaborazione con il politologo Achille Mbembe. Già bisognerebbe riflettere sul titolo degli incontri, qualcosa che parta dal senso stesso della riflessione (comprensione necessaria attorno al problema dell’ideologia e dunque di una cultura che ormai di identità si sente subalterna a quella occidentale) per scandagliare il passato, per mettere a sistema un presente e per prospettare un futuro che sia il più possibile distante dalle piaghe che il colonialismo ha lasciato; a dare consistenza al discorso personaggi come Lydie Moudileno, Romuald Fonkoua e Nadia Yala Kisukidi e molte altre anime che hanno speso buona parte della loro vita per una possibile emancipazione culturale ed intellettuale del popolo africano. Sarebbe impossibile, e anche insensato, restituire qui frammenti dei discorsi tenutisi durante l’incontro, e allora riporto solo tre domande, forse le più radicali e pungenti, le tre che lo stesso Bekolo riporta sulla scheda del film. Il primo problema è legato al pleonasma della filosofia occidentale, ovvero alla non necessarietà, o forse assurdità, nella decolonizzazione del pensiero contemporaneo africano. Il secondo alla totale mancanza di rispetto, o forse di amor proprio, che le popolazioni colonizzate devono ancora subire a distanza di anni come una sorta di sudditanza psicologica di inferiorità nei confronti della cultura occupante e dominante. Il terzo alla ridiscussione delle distopie da cui spesso i popoli sono attratti proprio per mancanza di strumenti utili alla lettura di una realtà così complessa e stratificata, astraendoli dal vero concetto di una potente emancipazione culturale (e successivamente sociale, politica ed economica) fondamentale per un orizzonte nuovo e realmente libero.
Ovviamente le risposte a tutto questo possono essere solamente relative, (s)punti di riflessione appunto, da mediare, da ridiscutere, da prendere come serie sterminata di appunti in cui poter trovare delle traiettorie, e allo stesso momento poter cercare nuovi metodi di accessibilità e condivisione. È un percorso che parte da momenti noti (la conferenza di Bandung del 1955, primo momento reale in cui si sottolineò come il colonialismo fosse uno dei più grandi drammi e mali della storia moderna e contemporanea) come da momenti meno conosciuti (il primo festival dell’arte nera, proprio in Senegal, nel 1966) per aspirare a qualcosa che appare come ancora molto distante ma che sarebbe necessario, come spesso sottolineato, anche al primo mondo stesso, il nostro. Nell’immediato, il senso che appare all’interno di questo “Workshop” appartiene a un’indagine che va oltre alle pratiche egemoniche del coloniale, ma al lascito, e che spesso non permette ancora oggi di capire cosa potrebbe accadere alla società come alla cultura di un intero continente. Da questo può nascere l’unica apparente risposta possibile, quella che trova le radici in nuovi strumenti di pensiero autoctoni che superino il concetto si sopravvivenza e resilienza, ma che si inseriscano in un tessuto comunitario nuovo, con lo scopo di pensare dinamiche e trasformazioni partendo ovviamente da una precisa co(no)sc(i)enza storica e identitaria. Su tutto questo, ovviamente, è necessario l’affermarsi di un nuovo concetto del pensiero che non deve in nessun modo aver a che fare con il rapporto nei confronti del dominante, ma democratico e socializzato nelle pratiche comunitarie, che germoglia, si sviluppa e si trasforma in marginalità con assoluta indipendenza come un contraltare anche della crisi, ormai forse irreversibile, delle nostre culture tradizionali. Serve un nuovo anno zero probabilmente, a mezzo secolo circa dall’indipendenza territoriale, un orizzonte che abbia una visione totalmente inesplorata dei rapporti di predicazione tra i popoli dell’Africa centrale, e tra di loro e con il resto del mondo.
Ora, tornati dal nostro punto di vista, le domande ahimè toccano proprio a noi. Non ci potrebbe sovvenire il dubbio che dovremmo, da occidentali, porci il problema sulle domande che un’umanità del terzo mondo è costretta da almeno un secolo a porsi per cause nostre? Non dovremmo guardare il nostro tempo come momento in cui mettere in discussione il nostro passato più prossimo nell’ottica delle relazioni di potere che ha costretto questi popoli a queste angherie? Non avremmo il dovere etico e morale di pensare al diverso, che bussa alla nostra porta, come prodotto del dolore di nostre pratiche in-umane (spesso ancora oggi praticate)? Afrique, la pensée en mouvement – part 1 è importante anche per questo. Bekolo ci restituisce quello che potrebbe essere un manifesto, o almeno un primo capitolo, che necessita di un processo di profonda riflessione bilaterale, loro quanto nostro, per il bene possibile di tutti. Il film si chiude su una riflessione sulla maturità, come condensazione dell’esperienza umana tutta, possibile auspicio di un domani. Un ultimo, doveroso, quesito: ma tutti quelli che esclamano “a casa loro!” si son mai posti queste domande “a casa nostra”? Così, per dire.
Erik Negro