ADAM UND EVELYNE (2018), di Andreas Goldstein
Molto spesso capita di interpretare la Storia attraverso le storie, o per lo meno di attraversare l’universale attraverso il personale. Così parrebbe muoversi anche Adam e Evelyn, stratificato romanzo di Ingo Schulze qui portato al cinema, e alla 33ma Settimana Internazionale della Critica annessa a Venezia75, dall’esordiente teutonico Andreas Goldstein. È una parabola che scorre intorno a un anno, a un preciso momento storico, a un evento che per molti chiude idealmente tutto il Novecento. Un sarto di nome Adam e una cameriera di nome Evelyn sono intenti a preparare una vacanza proprio nel momento in cui una fiumana di tedeschi dell’est cerca di passare il confine. Ben presto, però, lei scopre che il compagno la tradisce e decide di fuggire sola verso l’Ungheria; lui la seguirà (su una splendida auto del ’61) fino a trovarla, ma nel frattempo l’Europa è cambiata, il muro sta per crollare e le persone pare che non si conoscano più. Fra nuovi amanti e nuove prospettive, pur di superare una frontiera si viaggia anche nel bagagliaio di un’auto: forse è giunto il tempo per una vita nuova, è il tempo di ricostruire un rapporto come società e come identità. Tutto si intreccia, e nemmeno la strada pare conoscere una risposta. L’esistenza (pure quella di un amore) è lo spazio della provvisorietà e delle nuove possibilità.
Parte quasi come una commedia sentimentale Adam und Evelyne, sobrio e freddo, costantemente misurato. La tranquillità di lei e le fotografie di lui, una campagna agreste ai limiti della Germania Federale e la voglia di esplorare. Sarà proprio il viaggio a cambiare loro e le due opere (prima il romanzo e ora il lungometraggio) che li raccontano. Gli incontri, le derive, le nuove prospettive, quello che succede sulla strada: è tutto un continuo caos ordinato, per cui ogni situazione è destinata a rappresentarne un’altra, mentre, come già dal titolo si può intuire, entrano i necessari riferimenti biblici per sottolineare come i moderni Adamo ed Eva si trovino in una fuga solo apparente all’interno di un paesaggio che muta a vista d’occhio. Appare una realtà nuova più libera, o forse destinata a consumarsi nell’attimo d’eterno presente di un’estate impossibile, che vede in questo agosto l’ultimo momento di quiete apparente anche per chi, come noi, immaginava di essere lontano dalla Storia nel momento del suo (dis)farsi. Ecco che allora tutto appare come metafora di un’impossibilità continua che trasla l’affaire sentimentale nel dramma geopolitico, una tensione irridente ma continua sui rapporti, sul loro logoramento e sul mutamento improvviso. Ed è così che la comicità quasi surreale della prima parte diventa dislocazione e incongruenza di sensi; sono Adam ed Evelyn nella loro simpatica ingenuità a segnare il percorso e le avventure, sono loro ad apparire come prime tra le cavie di questo mutamento in divenire, e sono sempre loro, in questo costante cambiamento, a dover convivere con un senso di spaesamento anche sentimentale ed esistenziale.
Sarà Goldstein stesso (berlinese dell’est, nato quando – ancora per poco – la città e la Germania erano ancora divise) a muoversi nel suo film, nei primi due atti più sonnolenti e distaccati e nel mirabile terzo dove tutte le apparenze precedenti vengono piano piano a galla. Filma il dispiegarsi di un’estate del nord quasi impressionista, fatta di soli filtrati attraverso gli alberi e di erba verdissima in cui sognare, di cieli indaco che si specchiano nelle placide onde del lago e di figure che tranquillamente si muovono nei paesaggi in attesa di una scossa. La dialettica della prima parte, quella di un mondo incapsulato quasi in contemplazione del cambiamento, diventa sguardo di viaggio nell’urgenza di presenze che cercano una nuova collocazione sul rinnovato asse austro-ungarico. E così i frammenti dei telegiornali in apertura che stimolano lei alla fuga (e alla scoperta, e a sentirsi protagonista attiva della Storia), non sconvolgono inizialmente la vita di lui (occupato piuttosto, anche da dietro la sua macchina fotografica, a essere spettatore di ciò che succede all’esterno della piccola realtà in cui vive), ed è anche in questo che il film procede frantumato e scomposto – come si evince dal dialogo di lei con un pusher in cui viene raccontato in pochi versi ciò che il film mostra nella sua parte precedente -, innestato in una struttura volutamente squilibrata e in attesa continua di una prospettiva finale che riconduca, appunto, queste storie personali a quella universale. Ma quale sarà la vita senza Cortina di Ferro, senza Guerra Fredda e senza Muro?
Questo forse poco interessa sia a Goldstein sia a Schulze, perché la visione è strettamente legata all’epopea di quei giorni e a quelli precedenti, ai momenti in cui molti vollero andarsene (agognando un nuovo e dorato mondo del Capitale in cui esaudire tutti i propri desideri) mentre altri vollero rimanere (forse incapsulati dalla propria situazione, astenici e romantici della propria piccola patria in dissoluzione). Dunque, alla fine del viaggio, la (doppia) riunificazione finale forse non sorprende, perché quasi inevitabile nella provvisorietà di piccoli gesti e situazioni che, come in ogni Odissea, riconducono al senso stesso del partire. O dello scoprire, nel pieno di una disillusione ormai materica e fisica, di potersi ancora appartenere, mentre l’autunno è già alle porte e una nuova stagione si aprirà sulla Germania, sull’Europa e sul mondo tutto. Perché, e torniamo all’inizio, la Storia non sarebbe nulla senza le storie, ed il suo svolgersi è sempre legato ai suoi passeggeri o protagonisti. Siano lanciati in prima linea o stritolati da ogni cambiamento, saranno sempre donne e uomini le vittime – e allo stesso tempo i carnefici – dei tempi, soprattutto nell’attimo in cui decidiamo che questi tempi siano altri.
Erik Negro