AD ASTRA (2019), di James Gray
Se la meta di The Immigrant era la lontana New York degli anni Venti e quella di The Lost City of Z i confini del mondo dell’Amazzonia, era in un certo modo una logica conseguenza che James Gray dovesse necessariamente spingersi oltre l’universo, «fino alle stelle» e fra gli anelli di Nettuno, per portare avanti la sua missione cinematografica. Come se Ad astra, nel suo abbacinante realismo nel delineare lo Spazio, nella sua assoluta perfezione tecnica e nella sua dichiarata ispirazione al viaggio interiore del Cuore di Tenebra di Conrad, nient’altro fosse che la naturale e coerentissima prosecuzione di un’esplorazione che va sempre più lontano per arrivare sempre più vicino, alle più brucianti ossessioni, agli affetti, alla famiglia, alla solitudine, alla riflessione esistenziale, alla più intima natura dei sentimenti. Quelli che nel cinema di Gray, sin dall’esordio con Little Odessa passando per The Yards, I padroni della notte e Two Lovers, sono sempre stati il motore di ogni scelta e di ogni conseguenza, quelli a cui rinunciare per un più grande e assillante obiettivo di vita oppure quelli a cui ritornare costantemente come se fossero una mano da cui farsi guidare, magari fino a capire, come in questo caso, l’importanza del sapersi arrendere e tornare a casa, alla vita, alla fallibilità, all’emotività, a riprendersi quella moglie che, in The Lost City of Z, Percy Fawcett aveva ogni volta e poi per sempre lasciato a casa. Un assunto che in qualche modo parrebbe rimettere in discussione l’intera filmografia di James Gray, e che invece ne è il necessario completamento, l’altra faccia della luna, la chiusura di un percorso verso il più straziante umanesimo che emerge dalle paure e dalle contraddizioni, dalle difficoltà e dai dubbi, dai dolori repressi e dalla fragilità che prima o poi non potrà che insinuarsi a scaldare anche l’uomo più glaciale. Facendogli magari per la prima volta aumentare il battito cardiaco, facendolo magari per la prima volta sudare e piangere nel ripresentarsi dei ricordi e dei rimpianti, facendogli magari per la prima volta fallire una delle continue valutazioni psicologiche computerizzate a cui deve obbligatoriamente sottoporsi chiunque faccia parte del programma spaziale. Specialmente se, nel futuro imprecisato immaginato in Ad Astra, sei Roy McBride, più che degno figlio della leggenda Clifford McBride, il più eroico astronauta della Storia americana, primo uomo su Marte e poi su Giove, partito da quasi trent’anni alla ricerca di altre forme di vita e mai tornato sulla «biglia azzurra».
Tutti o quasi, a partire da Roy straordinariamente incarnato da un magnifico Brad Pitt, sono convinti che Clifford sia morto, eppure sembra che possa in qualche modo esserci la sua missione dietro al bombardamento di energia e antimateria che, dai punti più estremi del sistema solare, sta distruggendo i satelliti e sempre più minacciando la Terra. È il punto di innesco per un viaggio – interplanetario e al contempo introspettivo, puntellato dalla voce fuori campo di Pitt di un lungo monologo interiore che a furia di cercare un padre, la vita oltre la Terra oppure Dio finirà per trovare la solitudine dell’uomo – verso le zone più oscure, verso i confini della galassia e verso una nuova educazione sentimentale. Prima su una Luna ormai colonizzata dal capitalismo e infestata dai pirati, poi su Marte ultimo avamposto della società da cui lanciare il messaggio per la navicella paterna, e infine da solo verso Nettuno, con un padre da ritrovare e con una doppia missione, da astronauta e soprattutto da figlio, da portare a termine. Un viaggio di costante spostamento e costante evoluzione, eppure di quasi immobilismo all’interno dell’astronave fra un pensiero intimista e una sequenza di pura spettacolarità, nel quale scoprire, nell’incedere degli incontri, delle peripezie e dello sbloccarsi dei file top secret, come l’America abbia in realtà deciso di trasformare Clifford in eroe per coprire la sua insubordinazione, il fagocitarlo della sua ossessione fino all’omicidio dell’equipaggio e alla missione solitaria, e infine i suoi errori destinati inevitabilmente a ricadere su Roy, cresciuto come tutti in un (falso) mito con cui confrontarsi, in un’immagine distorta dall’autoproteggersi del Potere, in una storia, in una conoscenza solo parziale e idealizzata da far ritornare anche a costo di perdersi per sempre carne, sangue, sudore, delusioni, ossessioni e tragici sbagli. Come ogni minuscolo puntino che preferirà vagare per sempre nell’immensità dell’universo, ognuno secondo le proprie scelte. Ma soprattutto finendo per scoprire, come una crepa nel perfetto controllo e nell’efficienza di astronauta di Roy, l’emergere della sua umanità così opposta alla freddezza paterna. Più forte di ogni chiodo fisso, più forte di ogni incarico, più forte di ogni vocazione, più forte di ogni possibile risentimento di chi è stato ingannato, sfruttato e quasi dimenticato, ma ora non può più evitare di affrontare di petto le proprie malinconie. L’unico modo per essere realmente vivo, forse. Come se, a un anno di distanza, il First Man di Chazelle fosse esponenzialmente cresciuto e diventato con Gray una sorta di “last man”, di ultimo uomo rimasto tale, solo e abbandonato in uno Spazio profondo in cui le uniche forme di vita sembrano essere le scimmie-cavia (antenate dell’uomo portate lassù proprio dall’uomo) che attaccano e uccidono il comandante della missione di soccorso, mentre la Terra in qualche modo continua la sua vita.
Sin dall’incipit, folgorante nel suo straordinario realismo, la messa in scena di James Gray è semplicemente sontuosa, straordinariamente calibrata in ogni singola inquadratura e in ogni movimento di macchina, magnificamente fotografata stando attenti alle tonalità della luce riflessa da ogni singolo pianeta e strabiliante nel suo viaggiare fra i generi, mentre nella fantascienza visivamente più spettacolare si innestano l’avventura à la Moby Dick, il (post)western futurista, l’angoscia claustrofobica delle navicelle abbandonate e dei corridoi infiniti della base su Marte, il dramma introspettivo, e poi ancora la memoria – quella vera ripensando all’amore e quella fallace pensando al padre – che ritorna come un sogno nell’intrecciarsi dei flashback. E di fronte a un viaggio in cui non conta realmente la destinazione ma contano solo il cammino e la peregrinazione, e soprattutto di fronte a una così strabordante umanità, probabilmente mai così profonda nell’opera di Gray, poco importa che nell’appropinquarsi al finale di Ad astra non proprio tutto torni, poco importa che ci voglia qualche ora dopo la visione per lasciarlo attecchire e crescere fino a sciogliere le riserve, poco importa che il film progressivamente si sfilacci fino a qualche zoppia alternando momenti magnifici a imprevedibili cadute, poco importa che fra le sequenze più spettacolari si annidi qualche scivolata – in testa l’«Ho la cataratta» con cui Clifford riceve il figlio a bordo – pericolosamente protesa verso un kitsch del tutto inaspettato nella scrittura di un autore così importante e talentuoso. Poco importa che la sua filosofia si riduca alla fin fine a un ribaltamento non particolarmente originale del complesso di Edipo, e poco importa che nel farlo non manchi qualche didascalismo («Gli errori dei padri ricadono sui figli» così spiattellata è un’altra frase che probabilmente si sarebbe potuta evitare) né un procedere per accumulo nelle tematiche da sempre più care a Gray che tocca troppo e affonda probabilmente in troppo poco, oppure che possa forse infastidire il pastiche di continue citazioni, va detto a tratti un po’ compilative, con cui l’ambizione del regista si mette consapevolmente e insistitamente a confronto. Da 2001 Odissea nello spazio (le sostanziali riedizioni di Hal 9000 spartite fra il computer della valutazione psicologica e il sabotaggio all’impianto di aerazione con cui Clifford uccide l’intero equipaggio, oppure il deflettore usato come scudo per attraversare gli anelli planetari che potrebbe ricordare il monolito, o ancora la citazione esplicita dell’autore Arthur C. Clarke) a Solaris (la ricerca del contatto e il personaggio della moglie), da Space Cowboys (se non altro per Tommy Lee Jones e Donald Sutherland che tornano a indossare le tute spaziali) a Interstellar, o ancora da Gravity ad Arrival, passando ovviamente per l’inevitabile riecheggiare di Apocalypse Now, prima rilettura del libro di Conrad, e per più di un pensiero a Terrence Malick nell’uso così insistito della voce off. Ed è per questo che no, Ad Astra, da un autore che aveva abituato a film perfetti, non è un film perfetto. Ma non smette nemmeno per un secondo di essere un film prezioso. Quello che conta di Ad Astra è sua la potenza cinematografica e sentimentale, è il suo progressivo elidere le distanze umane mentre percorre quelle galattiche, ed è la sconfinata ambizione visiva del suo progetto, girato come solo un gigante cinematografico può osare girare. Anche con le sue imperfezioni, o forse proprio per le sue imperfezioni. Umanissime. Per aspera ad astra. O forse di nuovo alla Terra. Oltre tutto, anche oltre l’ultima bomba atomica.
Marco Romagna