ACID FOREST (2018), di Rugile Barzdžiukaites
Rūgštus miškas, ovvero «foresta di ghiande» in lituano (tradotto in inglese «Acid Forest» per motivi palesi a livello semantico/simbolico nel momento in cui l’acido è il vero e proprio fulcro del film), è un film semplice e breve, che supera di poco l’ora di durata e che è difficilmente collocabile in un sottogenere o in una tendenza del documentario moderno. Si potrebbe dire che è prolisso e che tutti i problemi che derivano dalla visione sono legati al fatto che la stessa non-storia può benissimo essere raccontata con una modalità più breve, ma le lungaggini sono giustificate dalla necessità di una sovrastruttura equilibrata nei ritmi del montaggio. È come un cortometraggio molto diluito, che spiega presto il proprio contenuto, ma che continua a perseverare nell’analizzarne il mondo fino a esplodere, nel finale, con uno stravolgimento. E lo fa ripetendo con prassi matematica la stessa progressione tra tre tipologie diverse di inquadrature: alberi, persone, uccelli. Tutte inquadrature fisse, eccetto le rare (per la precisione: tre) soggettive degli uccelli fatte con un drone che riesce a essere sorprendentemente efficace e funzionale per l’immersione. Anche se per arrivare a una visione completa di qual è la sua essenza il film ci mette un po’, prediligendo la suggestione e l’inquietudine per cullare lo spettatore fino al raggiungimento di un’apparenza di apprendimento concettuale e culturale degli eventi sullo schermo, il tema su cui si basa il film è molto semplice: in una foresta in Lituania risiedono, protetti dagli enti animalisti dell’UE, quasi due milioni di cormorani, che nella loro quotidianità compiono ciclicamente le stesse tre azioni, ovvero riprodursi, cibarsi e defecare. Il problema è che gli escrementi dei cormorani hanno un effetto acido per il suolo della foresta e per la corteccia degli alberi, portando sostanzialmente a un problema esistenziale: vivere porta i cormorani alla distruzione dell’unico ecosistema in cui possono vivere, i bisogni naturali limitano la possibilità di un futuro, presagiscono e costruiscono il percorso verso l’estinzione. In mezzo alla foresta c’è un’impalcatura in legno raggiungibile solo ed esclusivamente mediante una lunga scala, e nelle fasi centrali del film le uniche occasioni in cui vediamo gli esseri umani interagire con la foresta è se si mettono a conversare tra di loro su questa impalcatura. Fanno commenti di ogni tipo, dall’ignoranza beata di una donna che dice di essere felice che tutti questi uccelli vivano «assieme ai loro amichetti» fino alla brutale violenza inconscia e stolta di un uomo che invece dice che andrebbero uccisi tutti per preservare gli alberi. Il commento più importante però è quello fatto da un’esperta che, durante un’intervista, dice semplicemente che se le cose stanno andando così è perché devono andare così, e la natura sta solo facendo il suo corso. Ecco, Acid Forest è un film impressionante per come fa da cornice a una realtà che pare appartenere a una favola spettrale, ed è una delle rappresentazioni anti-narrative più adatte a descrivere il ciclo di vita, morte e reincarnazione del Saṃsāra nel mondo cinematografico, giustificandone la strutturazione concettuale mediante una ricostruzione scientifica basata sulla documentazione reale.
Ma se torniamo invece all’idea stilistica del film, le tre tipologie di inquadrature hanno tre scopi completamente distinti. Quando la Barzdžiukaites inquadra gli alberi, lo fa per dimostrare l’equilibrio precario costruitosi naturalmente e l’assurdità delle forme pseudo-geometriche che si stanno susseguendo e scomponendo all’interno del creato; quando inquadra gli uccelli, sembra quasi voler costruire un museo di rimandi gotici, inserendo i cormorani in una logica visuale spiritata, da iconografia fiabesca o dell’orrore, un’idea pseudo-filmica costruita solo mediante le sagome naturali prese dai rami del cimitero degli alberi, ombre sommerse nella natura e interrotte solo dalle soggettive degli uccelli, veri protagonisti di un flusso disumano; quando inquadra le persone lo fa usando gli alberi più alti e più vicini alla pedana a mo’ di cavalletti, origliando le conversazioni e osservandole con un distacco voyeuristico, come entrando in simbiosi con lo sguardo della natura, della foresta che guarda se stessa. Ma non solo guarda se stessa, osserva anche gli uomini che la osservano. La regista lituana con questo pretesto costruisce un gioco metacinematografico che in realtà riflette una costruzione esistenziale e non un dilemma profilmico: cosa siamo quando guardiamo il mondo? Essendo noi stessi in realtà parte del mondo, non è che osserviamo una riflessione interiore del Sé? Non è che dalla storia dei cormorani possiamo imparare qualcosa sulla nostra condizione sulla Terra? Il discorso non è misantropo né apocalittico, quando poetico-spirituale, anche se in maniera non esplicita, è tutto fatto solo ed esclusivamente dagli stacchi di montaggio tra immagini vuote e dalle immagini vuote esse stesse nella loro vuotezza. La storia dei cormorani di Acid Forest forse va letta come molti leggono i Testi Sacri, ovvero come indottrinamento allegorico-simbolico per imparare a vivere, e ognuno dal testo/film trae le proprie conclusioni. È quasi più importante il fatto che questo mondo sia stato raccontato che la modalità stessa del racconto, poiché con questo pretesto si forma anti-ideologicamente il seme per una progressione verso il deflagrante momento finale, in cui un uomo incappucciato e senza identità gira per la foresta e in mezzo a essa fa partire dei fuochi d’artificio, che passando tra gli alberi e arrivando in cielo fanno scappare i cormorani. Il dilemma continua, perché l’uomo è un’arma a doppio taglio, diversamente leggibile dalla soggettività degli spettatori: la situazione ha al centro l’uomo che sviando il percorso della natura ne rovina il flusso o l’uomo che facendo parte della natura costituisce parte del flusso? O forse l’antropocentrismo è la via facilona ed errata per la lettura, mentre al centro nella realtà vi sono i cormorani, uccelli antichi che si danno il cambio covando nel nido materno e si scambiano richiami d’accoppiamento mentre il legno cigola molesto e inquietante?
Il film, fuori concorso a Locarno, ha un valore cinematografico che non ci sentiamo di definire come inestimabile o necessario. La necessità è più strettamente vitale, perché aiuta a comprendere uno sguardo più coeso su quello che è la natura. Sono importanti le domande che Acid Forest pone a se stesso in maniera anche involontaria più che la maniera in cui le pone o le risposte che la regista pensa di essersi data, sempre che pensi di aver raggiunto un risultato a tesi dopo una ricerca sostanzialmente destinata a una soddisfacente e complessa incompiutezza. Ma è importante anche lo sguardo adottato dalla Barzdžiukaites, che riesce a creare quest’ambiguità mediante la semplice raffigurazione a distanza del mondo, e le piroette improvvisate fatte dall’operatore per poter catturare immagini altrimenti impossibili giustificano a livello tecnico-sperimentale delle scelte registiche inusuali. Come se la regista si identificasse col fantasma della foresta, che non giudica ma non smette mai di osservare e di imparare a vedere, Acid Forest si conclude tra le luci artificiali, ‘spauracchio’ per un mondo che scappa dal proprio essere, dopo una visione lunga, breve e intensa ma costantemente dilungata in se stessa fino a essere frustrante. Scopo dello spettatore è lasciar sedimentare il tutto, ed entrare nella logica degli insegnamenti spirituali o degli insegnamenti della favola: se si accettano le domande, si è pronti per fallire nel tentare di risponderle.
Nicola Settis