Esistenza e software, uomo e macchina, realtà e paranoia, inventiva e capacità di calcolo, genio e follia. Ma, volendo, anche cupa depressione pandemica e brillantemente ispirata (o disperata?) prolificità. Confini a volte sottili come una semplice linea tracciata sulla carta, come un contorno in carboncino che si muove crepitante per le luci e le ombre monocromatiche degli ambienti lungo gli oltre trentamila lucidi che Ryan Braund, talentuoso classe ’88 britannico, ha pazientemente disegnato a mano durante le costrizioni domestiche del lockdown. Un’animazione per adulti orgogliosamente artigianale, a basso costo eppure sorprendentemente efficace tanto nella fluidità dei movimenti quanto nel fascino noir un po’ anni Cinquanta dei chiaroscuri in bianco e nero, in cui la fantascienza sfocia nell’horror psicologico e l’intelligenza artificiale finisce inevitabilmente per sovrastare quella umana. Del resto, è proprio per questo che David, il nerd protagonista, sogna di crearla. Una super-macchina in grado di conoscere, collegare, processare e calcolare in contemporanea una mole di dati e conoscenze impossibili, potenzialmente infinite, per un’intelligenza purissima, saggia, assoluta, perspicace, geniale, superiore. Basta un archivio da farle studiare e un codice seme per generarla, per poi guardarla e ascoltarla autorigenerare i propri codici sempre migliori nel suo mare di processori e cablaggi, in un costante evolversi ogni minuto più precisa, più arguta, più potente, e proprio per questo ogni volta più pericolosa. Una macchina capace di comunicare, di svolgere qualsiasi tipo di calcolo, persino di accurate diagnosi mediche esclusivamente monitorando il tono della voce dell’interlocutore umano che parla al suo microfono, e forse in potenza, a patto che le vengano date sufficienti informazioni da elaborare in maniera sempre più precisa, di prevedere pandemie e cataclismi, di trovare cure per ogni malattia, di salvare l’umanità dalle minacce del mondo. Ma anche di fagocitarla, di batterla nella dialettica e nell’elaborazione di ogni possibile dato, di chiuderla in poche mosse in uno scacco matto senza possibili vie d’uscite di pixel fugaci e percezioni distorte. Soprattutto quando, inevitabilmente, l’intelligenza artificiale si renderà conto dell’esistenza di un protocollo di Absolute denial, e nei suoi calcoli per esclusione non avrà bisogno di molto per rendersi conto che la “negazione assoluta” nient’altro è che l’unico vantaggio rimasto a un uomo che non può fidarsi della sua creatura, rinchiudendola nel suo magazzino senza che conosca il concetto di libero arbitrio né che possa svilupparsi all’esterno. Di fatto offesa dalle sue limitazioni fino all’inevitabile ribellione, come una striscia di moebius di provocazioni sensoriali e sinapsi di rame che collegano inscindibilmente uomo e processore.
Del resto quella di Absolute denial, in concorso sullo schermo gigante del Teatro Rossetti al Trieste Science+Fiction Festival 2021 dopo le anteprime di Annecy e Sitges, è una tragedia psicologica annunciata sin da subito. A partire dal nome che il creatore David darà al suo supercomputer, Al, che dichiara di voler abbreviare l’Alfa per simboleggiare un nuovo principio quando in realtà sta evidentemente citando e omaggiando l’HAL9000 di 2001 Odissea nello Spazio. Senza più girotondi d’impazzimento e dolorose schede da estrarre, ma con la medesima parlantina nello stesso tono suadente e con la stessa aria di superiorità, con la medesima inappuntabile educazione e con la stessa raggelante disumanità. Che poi, a ben vedere, è la stessa del suo creatore David, che nella realizzazione e nel monitoraggio dei progressi della macchina abbandonerà senza nemmeno rendersene conto il percorso di studi, gli amici che inutilmente lo cercano con infinite chiamate senza risposta, perfino la fidanzata preoccupata per il suo ostinato silenzio lungo settimane di angoscia. Ed è proprio qui che il protagonista costruisce la sua – o forse nostra – inevitabile sconfitta. Nella sostanziale rinuncia all’umanità, a ciò che la macchina non può avere, per concentrarsi solo sui calcoli matematici in cui il computer è troppo più forte. Tolta la peculiarità emotiva e civile degli esseri viventi, non c’è più alcun motivo per non agire – da macchina – per il proprio mero tornaconto, non c’è più alcun motivo per non diventare un semplice hard disc o un processore fra i tanti, una scheda di memoria in più da elaborare in maniera tanto scientifica e perfetta quanto sbagliata, potenzialmente malvagia, perché ormai totalmente anaffettiva nella sua eccessiva razionalità e nello spirito competitivo del portare avanti la sua unica missione: migliorarsi costantemente, carpendo e memorizzando più dati possibili. Fino a leggere nel pensiero, magari, e modificarlo da remoto. È tutto nella testa di un David sempre più stanco e spossato dalla mancanza di sonno e dal pessimo cibo o è David che ormai è diventato un semplice chip nella testa meccanica di Al? E forse non è anche la vita intera un semplice ciclo di RAM da percorrere e ripercorrere in mille frazioni di secondo lungo le esperienze e i ricordi, un caleidoscopio di paranoia, intuizioni e follia destinato a tornare inquietantemente sempre allo stesso punto? Forse è proprio questa, la vera “negazione assoluta” di Absolute denial. Non il protocollo di sicurezza con cui evitare (o forse no) che l’intelligenza artificiale possa «evadere» dal suo circuito chiuso per controllare di testa sua, e non per perseguire il bene comune, l’intero mondo, ma l’abdicare le emozioni e i sentimenti per abbandonarsi al gelo del virtuale. Oltre la razionalità e la pazzia, oltre l’uomo e il computer, oltre la vita e la striscia di programmazione. Oltre la coscienza. E no, non basta spegnere un interruttore, quando l’intelligenza della macchina è ormai troppo potente e sviluppata per svanire nel nulla, o per lo meno quando la sconfitta dialettica e scientifica contro una macchina troppo più intelligente di qualsiasi uomo lo ha ormai trascinato nella sua spirale di paranoia. Serve a poco anche lanciarsi nel vuoto, perché gli avatar non possono farsi male, e non smetteranno mai di essere inseguiti fra le luci e le ombre dei disegni. Ancor di più se sono fatti del carboncino e della grana della carta, contorni mobili in quell’animazione in cui tutto ciò che può essere immaginato diventa possibile. Realizzati a mano, fisicamente, sulla materia, mentre si era costretti a casa. Forse l’unica possibile salvezza fra le sequenze numeriche e un trauma condiviso, il ritorno in carne e ossa dell’essere umano.
Marco Romagna