ABOUT DRY GRASSES – RACCONTO DI DUE STAGIONI (2023), di Nuri Bilge Ceylan
Chissà se il pero riesce ancora a dare frutti se cresce sull’erba secca dovuta all’ibernazione… Giocare con i titoli degli ultimi lavori di Nuri Bilge Ceylan può apparire forse puerile, ma contribuisce in realtà a fornire un contesto emotivo, intimo, al lavoro che il regista turco sta portando avanti da oramai trent’anni. Un cinema che guarda lontano (“Uzak” questo vuol dire nell’idioma di Istanbul), e che persegue ininterrottamente la ricerca di un clima – così sarebbe traducibile letteralmente il film del 2006 che divenne in Italia Il piacere e l’amore –, conscio com’è del mutar delle stagioni, del deperimento fisico, dell’umano divenire/tornare polvere, della perdita di senso e di Sé. Torna oggi appunto all’erba secca, con quell’About Dry Grasses (Racconto di due stagioni in quella che sarà la sua versione italiana) che appare sul proscenio di Cannes rapendo immediatamente l’occhio, costringendo lo sguardo a ricollocarsi altrove, in uno spazio peculiare della mise-en-scène, che sembra perfino travalicare il tempo. Ma così non è, e lo rimarca al di là di ogni ragionevole dubbio la sequenza in cui i tre protagonisti (gli insegnanti Samet, Kenan, e Nuray) si recano insieme a visitare il complesso archeologico di Nemrut Dağı, dove si trovano i resti del santuario dedicato al re Antioco I di Commagene: il piccolo stato ellenistico non esiste più da millenni, ne permangono solo le vestigia, e anche l’erba è stata già bruciata e seccata dal solo. L’essere umano non ha più, nella sua brevissima stagione di rigoglio, alcuna reale gestione della vita, può solo affrontare con coscienza di sé il mondo che lo circonda. In questa pretesa morale, che è alla base di molto cinema di Ceylan, si avverte il fremito quasi dostoevskijano della ricerca insistita dei personaggi, della loro verità più intima, in un racconto che si fa romanzo dall’ampio respiro – il film oltrepassa le tre ore di durata, come già gli immediatamente precedenti Il regno d’inverno e L’albero dei frutti selvatici – e che ambisce a raffigurare la borghesia intellettuale turca e la sua crisi, personale e universale. A questo “serve” il triangolo elaborato in fase di narrazione – frutto come lavoro di un altro triangolo, quello che vede insieme a Ceylan al lavoro la moglie Ebru e Akin Aksu – e che vede al centro del discorso il quarantenne Samet, che insegna arte nella scuola di uno sperduto villaggio nel cuore dell’Anatolia, dominato da una presenza curda molto rilevante. Samet vive e lavora nel paesino da ben sette anni, dopo aver abbandonato le zone più moderne della nazione: l’intellettuale ceylaniano sfugge al mondo contemporaneo, rifiuta la società turca di Erdogan, cerca rifugio nel piccolo, nel privato, nel celato. Samet non ha legami, al punto che divide l’appartamento con il collega Kenan: entrambi avranno modo di conoscere e innamorarsi di Nuray, a sua volta professoressa di inglese. La donna si è a sua volta rifugiata in quella terra di nessuno – si potrebbe asserire che sia dei curdi, ma è ben nota la volontà del governo turco di combattere la minoranza del gruppo etnico iranico: questo rende in un certo qual modo About Dry Grasses una sorta di western – ma prima ha vissuto tanto a Istanbul quanto ad Ankara, e ha anche perso una gamba in un attentato terroristico.
Il triangolo da amoroso si fa politico, perché Ceylan sposta l’asse dell’attenzione sulla classe intellettuale, sul suo intrinseco fallimento, così evidente da mettere in crisi persino il compito da educatori cui i tre sono ineluttabilmente chiamati: lo certifica l’accusa che riceve Samet, quella di aver utilizzato un comportamento inappropriato nei confronti di Sevim, l’allieva prediletta dell’uomo, che però lo denuncia al preside, sostenuta da una sua compagna di classe. Lo stesso procedimento disciplinare lo subisce anche Kenan, con i due che devono dunque dimostrarsi “innocenti” agli occhi della direzione del comprensorio scolastico. Non è però di nuovo questo il centro del discorso attorno al quale si articola il film, anche perché le accuse delle due ragazze – mosse, soprattutto per quel che concerne Sevim, da un misto di fascinazione e gelosia verso il distinto ma affabile insegnante – cadono nel nulla, visto che il resto del corpo studentesco ne boccia in maniera inequivocabile l’assunto. Non prende deviazioni pruriginose, About Dry Grasses, e allo stesso tempo non si ferma a una mera rappresentazione di un triangolo affettivo tra anime forse affini ma sicuramente solinghe. Ceylan tenta, e riesce portentosamente, un ritratto disilluso e amaramente prossimo alla commedia di una generazione di intellettuali di sinistra sconfitti prima ancora di aver accettato l’agone; mutilati, perfino fisicamente, da un potere contro cui non si contrappongono e che non riescono neanche a collocare con esattezza nello scacchiere dell’esistenza. Intellettuali che agognano una riscossa collettiva ma poi sanno vivere solo nella messa in pratica di un individualismo ipocrita, e del tutto borghese – là dove loro vorrebbero, anche solo nella scelta di non essersi sposati, rivendicare irrequietezza nei confronti della prassi della vita quotidiana. Samet non sceglie, non prende posizione – in questo senso lasciando inevitabilmente ambiguo proprio il rapporto relazionale con la giovanissima Sevim –, boccia senza però apportare un significato di rivoluzione a una prammatica esistenziale che pure non approva in nessun modo. Per questo, nella sua funzione di negazione perpetua della verità, può permettersi di andare oltre il campo del “set”, di superare la parete finzionale che distingue la rappresentazione dalla realtà e muoversi indipendentemente nelle due zone, come se nulla fosse, in una sequenza tra le più mirabili (anche perché in tutto naturale) vista in quest’edizione del Festival di Cannes e in generale nel corso degli ultimi anni.
In un mondo che pretende l’assoluta certezza (del comportamento, della giustizia, dell’azione singolare e collettiva) Ceylan attraverso i suoi tre protagonisti – il film poi ha molti rivoli in cui perdersi, solo all’apparenza però secondari o irrilevanti, e che contribuiscono a un quadro generale della Turchia rurale contemporanea – riafferma il diritto inalienabile al dubbio, alla complessità, e ancor più alla dialettica. Samet e Kenan, ed entrambi singolarmente e insieme con Nuray, discutono, utilizzano il dialogo per riconfermare le proprie asserzioni ma anche per aprire il fianco alle debolezze, alle zone d’ombra, a ciò che non può essere definito con “facilità”. In questo senso a dir poco mirabile appare la lunga sequenza in cui Samet, fingendo di aver invitato anche Kenan, si presenta a casa di Nuray e lì dà vita a una dissertazione che è anche atto sessuale e persino affettivo, ma ancor prima riflessione politica sull’agire, e le sue eventuali conseguenze. È qui, all’interno di questa articolata sequenza, che il regista turco inserisce la già citata “fuga” di Samet fuori dal set, fuori dalla rappresentazione, nella vacuità di un vero che non può essere più – o forse non è mai stato – portatore di rinnovato vigore, e potenza espressiva. È sempre durante questa lunga notte che il personaggio di Nuray si contraddistingue in maniera inequivocabile come l’unico elemento non perso in sé stesso ma ancora aperto a una dialettica con l’esterno; è lei a potersi permettere l’interrogatorio dell’altro, lei ad avere la forza di uscire dal campo della mera autorappresentazione cui sono invece confinati tanto Samet quanto Kenan. Nuray, versione adulta e dunque ferita di Sevim (e la sfida a palle di neve di quest’ultima con Samet è un altro passaggio chiave del film), è l’elemento umano che ancora sa elaborare, mentre i due uomini non hanno nemmeno la capacità di discutere tra loro dell’oggetto del desiderio di entrambi. Forse in effetti Samet desidera Sevim, ma non nell’accezione sessualizzata cui si potrebbe facilmente giungere per fallace deduzione. Samet desidera Sevim in quanto essere umano ancora in divenire, ancora in mutazione come le stagioni che si abbattono sulla regione con una furia inusitata e vitale – la neve gelante, il sole bruciante. Per questo About Dry Grasses non può che chiudersi sulla giovanissima ragazzina, pur con la consapevolezza che la vita inaridirà anche lei, la brucerà, la costringerà ad affrontare gli spettri più estremi della meteorologia della civiltà, o supposta tale. La neve, il sole, l’acqua, l’erba: elementi che non sono mai superficiali, e ancor meno esornativi, ma che sottolineano come la natura, quella natura che gli uomini non sanno più capire, sia l’unico elemento ancora in eterna rivoluzione, in rinnovamento. Sia l’unica utopia possibile, quella che non concede più nemmeno la giovinezza.
Raffaele Meale