ABOU LEILA (2019), di Amin Sidi-Boumédiène

La Semaine de la Critique di Cannes, giunta quest’anno alla 58esima edizione, tenta ancora di osare e sperimentare in una programmazione spesso improntata alle opere prime, al cinema di genere, a film dalla decisa impronta autoriale. Basti pensare al meraviglioso film di chiusura Chun jiang shui nuan (in internazionale Dwelling in the Fuchun Mountains), opera prima del giovanissimo Gu Xiaogang – su cui magari ritorneremo, in altri spazi; ritratto, affascinante e stilizzato, di famiglia lungo il corso di un fiume attraverso il tempo delle stagioni. Altro film determinante per la selezione di questa edizione è Abou Leila, esordio dell’algerino Amin Sidi-Boumédiène. Film assai complesso e ricercato, che trova la sua struttura nel tornare vorticosamente a metà anni Novanta, con il terrorismo alle porte della sabbia. Un’opera, per certi versi estrema e poco conciliante, vicina ai deserti di Lynch e Antonioni (non senza qualche deformazione di Tariq Teguia) eppure estremamente rinnovata e potente. Un viaggio itinerante tra follia e violenza, nel dramma apolide della fuga nei confronti di ciò che nemmeno si conosce. Onirico e suggestivo, a tratti iper-realista e metaforico, Sidi-Boumédiène ricostruisce la sua visione di spettri e fantasmi che ancora oggi popolano il medio-oriente, e lo fa in maniera spiazzante e simbolica, lasciandoci la visione di una realtà apparentemente illeggibile e rimossa.

Algeria, 1994. Due amici d’infanzia attraversano il deserto alla ricerca di Abou Leila, un pericoloso terrorista. L’apertura del film è debordante; una sparatoria quasi in presa diretta, vista da angolazioni infinite e destrutturata al montaggio. Stacco. Inizia l’inseguimento apparentemente assurdo e senza meta, i due ragazzi paiono girare continuamente attraverso le dune in una spirale senza prospettiva. Si alternano villaggi che paiono missioni a vuoti infiniti, di quel Sahara che ancora non conosce il seme della violenza che oramai attanaglia la città. Ogni momento è sospeso, ogni frammento del viaggio è disperso in visioni lisergiche, incubi espressionisti, dilatazioni spazio-temporali. Il viaggio è una deriva metafisica di figure nel paesaggio che perdono forze e identità, quasi in attesa di epifanie, oasi, rivelazioni. Ma è un viaggio che si mostra anche come atto di amicizia puro e infinito, di rispetto e dialettica nell’altro, di fiducia verso lo sconosciuto (l’umanità stessa che combatte il mondo della guerra?) e di resistenza nei confronti dei deliri di un inconscio stremato. Un doppio viaggio dunque – come un doppio sogno – tra l’essenza del deserto e le anime di chi lo attraversa, lasciandosi alle spalle coordinate, drammi e violenza. Solo alla fine di questo detour disumano si tornerà all’inizio, al senso di quella sparatoria, e a come essa rappresenti il destino di questi protagonisti come della stessa società che rappresenta. Il resto è solo polvere, che corrode e copre l’essenza lasciando visibili i margini dell’oblio di ciò che rappresenta.

Venticinque anni sono passati dalla cosiddetta “Black Decade”, il conflitto che durò dal 1991 al 1999 e morirono oltre 150.000 cittadini. Ed è quella spaventosa guerra civile algerina il teatro che Sidi-Boumédiène decide di lasciare sullo sfondo del suo dramma psicologico. In un percorso alla ricerca di una possibile risoluzione del dolore collettivo, giustapponendo (a tratti in maniera quasi surreale) elementi del disastro a squarci di straordinaria umanità. Vediamo continue variazioni cromatiche sugli immensi paesaggi/passaggi desertici, la macchina da presa come prisma che scompone ogni varietà di gialli e di rossi; la natura è costantemente stilizzata e discontinua, vorticosa e tentacolare nel mostrare gli effetti della violenza (metaforica e letterale, evocativa e astratta) sulla società, sulle paure e sui difetti dell’altro. Un substrato di incubi, anche inconsci ma continuamente materializzati, che Amin Sidi-Boumédiène modula come tappe di un processo continuo e dialettico di emancipazione dal senso di un orrore, svuotandolo progressivamente di significato. Non si trova però nessun approccio frontale a tutto ciò, il substrato filosofico e quello narrativo dialogano circumnavigando gli spettri di quella violenza al di là della sua forma estetica e ideologica. Abou Leila è un film oscuro, stratificato e affascinante proprio nel suo essere barocco e al contempo allucinatorio; abitato da allucinazioni emotive e metamorfiche, da fragili visioni e sguardi, da una consapevolezza sempre sfuggente al cospetto del reale. Quasi come se tutta quella matta e disperatissima ricerca davvero non portasse a niente, se tutto quel deserto non conservasse nulla, se il vuoto fosse uno spazio di emancipazione della Storia. Il coraggio di purificarsi e purificare sta nel perdere ogni traiettoria possibile, forse anche quella che porta al senso di noi stessi.

Erik Negro