25 Giugno 2022 -

A WEAVE OF LIGHT (2021)
di Bram Ruiter

Concreto e astratto, materia e idea, percezione e immaginazione, parola e immagine, visibile e invisibile, guardare ed essere guardati. È un film che danza consapevolmente sui confini, A Weave of Light. Undici multiformi minuti che partono dalla pura materia tattile di una cartuccia in Super8 mai sviluppata, e che torneranno alla stessa plastica dell’involucro e alla stessa emulsione del passo ridotto Kodak passando per la più totale astrazione di sei diversi fantasticare, per l’iperuranio in cui nascono i sogni, per i frammenti d’emozione delle voci che raccontano i loro occhi chiusi. Non importa da dove venga il misterioso rullo in Super8 giunto in qualche modo sulla scrivania dell’olandese Bram Ruiter. Forse da una bancarella, forse da un’eredità, forse da un trasloco. Non è questo il punto. Quello che conta è continuare a non svilupparlo, non sapere che cosa ci possa essere impressionato, non avere idea di come possa essere sopravvissuto agli anni, all’ossido, alla luce, e continuare a immaginarselo, a ipotizzarlo, a sognarlo, facendosi ogni volta nella mente un film diverso e personalissimo. L’unico modo per continuare costantemente a cercare ciò che è sconosciuto, a stuzzicare la creatività, a stimolare la fantasia propria e magari degli altri, con i loro immaginari differenti figli di diverse memorie. È per questo che Ruiter, a costo di trovare – va detto – un lavoro forse più affascinante nelle premesse teoriche e nell’intuizione alla base che nell’effettiva realizzazione qua e là un po’ scolastica e inopinabilmente derivativa nei sospiri finali a Stan Brackage, chiama a immaginare il contenuto della pellicola altre persone eterogenee e soprattutto semisconosciute, in modo da non avere vissuto e passioni in comune, in modo da allontanare il più possibile da se stesso la conoscenza, la percezione, le aspettative nei confronti del contenuto della cartuccia. Per poi mettere la sua Super8 Canon al servizio delle loro divergenti inventive, in una messa in scena dei loro soggetti improvvisati, dei loro pensieri, dei loro dubbi, del loro sciolto fantasticare, della loro personale idea di lingua filmica. Le loro parole, registrate da Ruiter, riemergono come schegge di discorsi incompleti, privi di dettagli e contestualizzazioni, quasi come fossero semplici increspature emotive di chi ha bisogno di credere al suo sogno, mentre nel 4/3 sgranato dello schermo si materializza il senso più intimo della loro visione, del loro pensiero, delle loro libere associazioni. Possibili declinazioni in una gamma potenzialmente infinita di idee, di fantasie, di illuminazioni, così come è infinita la mente umana, ed è infinito ciò che si può concepire, ipotizzare, rappresentare, volere (o magari temere di) percepire.

C’è Esther che immagina una pentola sul fuoco e i dettagli in movimento di un corpo umano, c’è Deniz che sposta il sogno in Super8 in un’ipotesi di sfasciacarrozze, c’è Fay che pensa al realismo di un occhio disegnato a matita su carta, e c’è Joaquim che unisce concreto e astratto nel metallo fuso e nelle possibili forme in cui forgiarlo, capace di dare fisicità cinematografica a un’idea di possibile contenuto della cartuccia immaginando di dare fisicità materica a un’altra idea, questa volta di figura, con tutti gli utensili necessari per realizzarla. E poi c’è Kimberley, che dalla piccola statuetta in terracotta di un faro sogna il materializzarsi del suo fascio di luce nel buio, magari proprio sopra quel mare placido fantasticato da Ad in cui cercare l’oltre, l’ipotetico, l’incorporeo, l’impercettibile, il metafisico. La pura forma, il puro colore, l’impressione di un impossibile che si fa materia, proprio come quella grana pesante dell’emulsione, proprio come quei chicchi di polvere rimasti intrappolati nella pasta dell’immagine, proprio come quei graffi sulla pellicola che in qualche modo attraverso la vista di chi guarda sembrano risvegliare anche il senso del tatto, o forse il sesto senso, quello delle percezioni più profonde e radicate. Stimolato da una raccolta di ipotesi, di simboli, di personali tentativi di pensare l’invisibile, in uno studio delle infinite potenzialità e delle infinite possibili combinazioni di più immaginari, che poi è per molti versi una sorta di sintesi dell’intero lavoro di selezione della 58ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, dove A Weave of Light è stato presentato in un concorso che esattamente allo stesso modo si pone l’obiettivo di andare a cercare l’intuizione, l’originalità, un modo appunto “nuovo” di raccontare, di raccontarsi e di ragionare per immagini e per suoni. Basta un concetto, basta un pensiero, basta un’idea su cui lasciar correre il libero fantasticare, l’inconscio, il flusso di coscienza. Tanto che viene voglia di partecipare al gioco e ripensarlo, il film di Bram Ruiter. Viene voglia di immaginare in quel misterioso Super8 mai sviluppato la propria pellicola personale, la propria volontà di vedere, la propria pudicizia ad apparire. Si può essere chiunque, nel sogno. Si possono cercare le differenze fra vero e falso, si possono cercare le espansioni e i residui oltre il fisico e forse oltre la fine della vita, si può pensare di guardare e di essere guardati. Si può passare da un luogo all’altro, da un mondo all’altro, da una storia all’altra. Di sicuro si può trovare una nuova e profondissima intimità, nella quale scoprirsi forse per la prima volta vedendo materializzarsi fra le astrazioni simboliche una proiezione di se stessi, del proprio immaginario, del proprio subconscio. Della propria anima, che accende lo schermo come una lama di luce nel buio.

Marco Romagna

“Een weefsel van licht” (2021)
11 min | Documentary, Short | Netherlands
Regista Bram Ruiter
Sceneggiatori Bram Ruiter
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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