A TRAVELER’S NEEDS (2024), di Hong Sang-soo
Questa volta non ha bisogno di inventare studenti di cinema, registi più o meno in erba o attrici di successo alla ricerca del proprio ruolo nella vita, il sempre prolifico Hong Sang-soo. Un po’ come se, dopo la compresenza nel precedente (e un po’ interlocutorio) In Our Day, il suo nuovo A traveler’s needs presentato nel concorso principale della 74ma Berlinale segnasse il momento della definitiva (?) presa del posto nel suo immaginario che per molti anni e molti (più) film è stato del (meta)cinema da parte del’arte poetica, dei versi lirici, del componimento in metrica. Del resto, dopo l’aperta e per molti versi definitiva teoria di In Water, non sarebbe in alcun modo folle da parte dell’autore coreano considerare esaurito, e quindi necessariamente da chiudere e aggiornare in una nuova direzione, un discorso affrontato e riaffrontato ben oltre i confini dell’ossessione, e che qui fa timidamente capolino solo nel lavoro in produzione del compagno, come d’abitudine inetto, di una delle due donne che diventeranno allieve dell’improvvisata insegnante di francese interpretata, 12 anni dopo In Another Country e 7 dopo Claire’s camera, da Isabelle Huppert. C’è invece al centro, come si diceva, l’ispirazione della poesia. Quella scritta sui libri e quella incisa sui massi, quella affissa a un muro e quella di cui cercare una traduzione sullo smartphone, quelle di poeti rigorosamente morti di tragedia da giovani (del resto «gli eroi son tutti giovani e belli», per dirla con il Francesco Guccini de La locomotiva) e quelle che la protagonista vuole estrapolare dal racconto in inglese dei sentimenti delle sue allieve, traducendo in belle parole francesi la loro anima e le loro emozioni per poi consegnare loro il foglietto da rileggere e imparare. Un metodo di insegnamento senza libri e sperimentale ai limiti del ciarlatanesimo e della truffa, paradossale e scopertamente raffazzonato da una sedicente insegnante apparsa dal nulla su una panchina in Corea senza alcun tipo di abilitazione né di esperienza pregressa, eppure da una parte straordinariamente divertente nel mettersi al centro dei dialoghi paradossali e del tono comico e leggero del film, e dall’altra profondamente simbolico nel delinearne il suo senso ultimo e in generale del cinema di Hong Sang-soo, sempre alla ricerca di una ben precisa sincerità da far vibrare nei lunghi dialoghi in larga parte improvvisati su un canovaccio, da scoprire, sintetizzare e tradurre in linguaggio cinematografico proprio come la protagonista scopre, sintetizza e traduce, o per lo meno cerca di farlo, gli scossoni dell’anima che si trova di fronte. Cercando di esprimere, poco importa se a parole, in immagini o in musica, quel che conta è trovarlo, ciò che è realmente significativo per una persona, ciò che è più intimo, ciò che è più vero. Quella sincerità dell’animo umano per cui decidere, di pancia, di dare fiducia anche all’improbabile, perché può bastare un momento, uno sguardo, una passeggiata insieme nel parco per conquistarsi e per non perdersi mai più.
Del resto è proprio questo che insegna A traveler’s needs, a imparare a fidarsi degli altri usando il cuore e le emozioni, anche quando la testa e la razionalità suggerirebbero l’esatto opposto. A sentire di più, con l’istinto e con i sentimenti, anche a costo di ragionare meno. Fino a scoprire vicinanze inaspettate, affiatamenti inattesi, corrispondenze improbabili se non impossibili, fede convinta e assoluta nel prossimo, da conoscere e da vivere prima di lanciarsi in pregiudiziali diffidenze dovute all’età, alla nazionalità o all’estrazione sociale. È per questo che Hong Sang-soo delinea nella misteriosa Iris di Isabelle Huppert una donna di mezza età apparentemente senza un passato, venuta fuori dal nulla e senza alcuna reale garanzia da offrire, che beve ogni giorno superalcolici, che sbarca il lunario con le sue strambe lezioni di francese e che vive «come amica» a casa di un ragazzo enormemente più giovane di lei, il quale dopo averla trovata al parco intenta ad ascoltare una musicassetta in un walkman e averle offerto un tetto e la sua confidenza ora cerca senza successo di nasconderla alla madre preoccupata che senza preavviso si presenta a trovarlo. Contrapponendo la chimica alla razionalità, l’istinto alla paura, il cuore e l’umanità alla diffidenza. Il trasporto della musica e della poesia alla sistematica ponderatezza. L’ennesimo punto di approdo sentimentale e umanissimo di un cinema, quello di Hong, che dalla sua progressiva rarefazione si fa sempre più simbolico e astratto, sempre più istantaneo, sempre più conciso ed etereo, ma che anche a colori e (principalmente) in inglese è sempre se stesso, sempre dolcissimo nei suoi echi rohmeriani, sempre riconoscibile a un primo sguardo nella sua semplicità e nella sua dolcezza. Un cinema di metodo, di recite a soggetto su una scrittura minima, di intuizioni improvvise, di troupe ridottissime e di tempi di realizzazione brevissimi, di un gruppo ormai perfettamente affiatato di attori (anche se questa volta manca del tutto Kim Min-hee) che sanno già perfettamente che cosa fare. Un cinema di reiterazioni degli stessi momenti (le risposte identiche parola per parola che le allieve danno alla protagonista quando interrogate sulle loro emozioni provate mentre stavano suonando) e dello stesso film da replicare all’infinito (e magari pure più volte al suo interno, come in Right Now, Wrong Then); un cinema di brindisi alcoolici (anche se questa volta con il makgeolli anziché con il “classico” soju) e di sigarette da incenerire una dopo l’altra sui terrazzi, un cinema di panchine al parco e di piccoli gesti (apparentemente in)significanti di vita, d’amore e di morte. Un cinema di fulminei e irresistibilmente spassosi zoom verso un cane che guarda inquisitorio la mediocrità dell’uomo, mentre la centralità è tutta e sempre più delle donne – una moglie, una madre, un’insegnante, forse un sogno d’amore, di certo un reciproco trovarsi, scoprirsi e fidarsi l’uno dell’altro al di là di ogni apparenza. Un cinema-haiku sempre (quasi) uguale e (quasi) sempre bellissimo, in cui allontanarsi e poi riavvicinarsi senza nemmeno rendersi conto di come le dita si siano cercate e trovate quasi da sole, e ora ci si stia teneramente tenendo mano nella mano mentre si cammina insieme verso casa. Senza malizie, senza doppi fini, senza inganni. Solo per il piacere di passare del tempo insieme, senza bisogno di porsi troppe domande. Basta delegare il cuore, le viscere, la poesia del quotidiano.
Marco Romagna